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sabato 17 aprile 2010

DELLL’ORIGINE:Come nacque e perché Forza Italia .

di Giuseppe Tramontana

“L’origine è la meta.”

(K. Kraus, Detti e contraddetti)

Ormai abbiamo ingoiato tutto, il Lodo Alfano e lo scudo fiscale, Di Girolamo e il legittimo impedimento, persino le regionali. Eppure, qualcosa dovrebbe continuare a non essere dimenticata. Qualcosa che sta all’origine di tutto ciò che in Italia stiamo vivendo e che sta ancora conficcata nelle carni della democrazia. Come un corpo estraneo. Come una scheggia sotto pelle. Magari per un po’ ce ne si dimentica. Ma, viene il momento in cui ci passi il dito sopra e sfiori quel rilievo che deforma la compattezza liscia dell’epidermide. E’ lì. Non ci puoi fare niente. Non te ne puoi dimenticare. Almeno fin quando non la estrarre del tutto. Ecco il vizio della memoria che ci fa ritornare a ciò che non sarebbe dovuto accadere, ma che accadde. L’entrata in scena, più di quindici anni fa, di Forza Italia e del suo demiurgo, Silvio Berlusconi. Bisogna difendere la democrazia, direbbe Michel Foucault, ma noi allora non ne fummo capaci. E ora? Intanto ricapitoliamo. Così tanto per non dimenticare… Magari ci viene voglia di riprendere la battaglia. Per la democrazia. E, quindi, per la nostra dignità.

Dall’azienda al partito. E ritorno.

Anno Domini 1993. La Fininvest, l’azienda televisiva del cav. Berlusconi Silvio da Arcore, classe 1936, è con l’acqua alla gola. Il nodo dei misteriosi e cospicui finanziamenti ottenuti negli anni Sessanta da finanziarie svizzere, dei fidi ipotecari per decine di miliardi incassati da banche dirette da uomini della P2, del fallimento dell’avventura finanziario-televisiva in Francia (La Cinq, circa 200 miliardi buttati ai piccioni) sta strozzando l’azienda. E tutto ciò nonostante i miliardi in nero accumulati nelle misteriose holding (All Iberian, ma non solo. Altre, a volo d’uccello, sono la Principal Network delle Isole Vergini Britanniche, la Rete Europa International di Londra, la Tricom di Parigi, la Omc Corporation di Panama, la Rete Europa International N. V. di Curacao, Antille Olandesi). Bene, praticamente, nel 1993 emerge in tutta la sua evidenza la verità non dicibile: la Fininvest sta annegando nei debiti. Ma ce la può fare. Se solo riesce a far fruttare a pieno il naturale appeal che esercitare sulla politica: essendo un’azienda televisiva è capace di giungere e influenza milioni di telespettatori, cioè di elettori. Cosa che, in una democrazia ampiamente partitocratica come la nostra, non faceva di certo venire l’allergia a nessuno.

Gli anni Novanta si aprono con non pochi problemi per il Gruppo Berlusconi. In primis, c’è la questione dei debiti, stimati in qualcosa come 5-6 miliardi di lire. In secondi, vi è la situazione politica improvvisamente divenuta indecifrabile, nebulosa. Il 5 aprile 1992 si assiste, in Italia, ad un vero terremoto politico. La Dc perde quasi il 5% dei voti, passando dal 34,3 al 29,7%, il Psi viene anch’esso ridimensionato, mentre sale la stella della Lega (dallo 0,5 all’8,7%). Insomma, il CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), ambito di riferimento di Berlusconi, non dorme sonni tranquilli, benché a mitigarne le preoccupazioni ci pensa il crollo del più grande partito dell’opposizione, il PDS, passato dal 26,6 al 16,1%. Questo quadro turba il Cavaliere. Da sempre appoggiatosi al CAF ed a Craxi in prima persona, ne ha supportato la politica ed i disegni mediante la manipolazione pressoché scientifica dell’informazione televisiva, ricevendone in cambio quegli appoggi necessari per mettere ramificare i propri interessi economici. Con loro alle spalle ed con gli ausili dei confratelli della P2, il Cavaliere da anni non ha nulla da temere. Ogni tanto qualche piccolo grattacapo, una preoccupazione, un’ordinanza del giudice che impone il silenzio alle sue televisioni, ma gli amici a che servono, se non a intervenire al momento del bisogno? Ma Tangentopoli rimescola tutte le carte e le certezze.

Qualche anno prima, Berlusconi ha voluto sondare il terreno della politica. Si tratta di tre ‘uscite’ utili non solo ad avere il polso dello stato del consenso popolare nei suoi confronti, ma anche per ‘avvertire’ i potenti amici che finora l’hanno coccolato, vezzeggiato e favorito.

E’ il 4 ottobre 1990. Berlusconi non ha mai utilizzato le sue emittenti televisive per rilasciare interviste o esprimere opinioni politiche. Quello lo fanno i suoi talkshow. E ad un talkshow si rivolge per rilasciare la prima, lunga intervista incentrata su tematiche politiche. Certo, ha centinaia di giornalisti, televisivi e della carta stampata, a sua disposizione. Ma furbescamente opta per il più apolitico dei suoi conduttori, il buon senso personificato, l’ignoranza (o pseudo-ignoranza) innalzata a mito, stereotipo e blasone: Mike Bongiorno, il ‘quizzarolo’ che si rivolge (e piace) ad una massa sterminata di persone di tutte le età e le estrazioni sociali, casalinghe soprattutto. Il programma è ‘Telemike’, il quiz condotto dal bravo Bongiorno, in onda su Canale 5 alle 20.40, massima fascia d’ascolto. L’innocuo dipendente Mike concorda preventivamente una serie di domande con il principale. Che tutto sia sotto controllo, per carità. Per la bellezza di 34 minuti, il Cavaliere da’ fiato alle trombe, sciorinando il suo pensiero, attaccando la ‘Legge Mammì’, in discussione alla Camera, e menando fendenti contro la sinistra. Come scrive A. Giglioli nel libro Forza Italia, “è evidente che Berlusconi pensa soprattutto a vendere una buona immagine di sé, a ottenere il massimo effetto in un terreno amico, a sembrare simpatico, sorridente, elegante e gioviale. Chiede Mike Bongiorno: ‘Chi butterebbe giù da una torre fra Oscar Mammì, Carlo De Benedetti e Ciriaco De Mita?’. ‘Nessuno dei tre’, risponde Berlusconi smagliante, ‘perché con una simile compagnia sono convinto che correrei meno rischi a buttarmi giù io’. Ogni risposta viene accolta dal pubblico in sala con fragorosi applausi e ovazioni. Ogni battuta con grandi risate. Quando il cavaliere ringrazia tutte le signore d’Italia, le ‘maggiori artefici della fortuna delle mie reti’, due donne gli gridano ‘Bello!’. Alla fine, Sua Emittenza si congeda e tutti i presenti si alzano in piedi. Nell’euforia generale Mike saluta: ‘Evviva Silvio Berlusconi, lunga vita al nostro presidente!’”.

A dispetto della vulgata secondo cui lui interpreterebbe il ruolo dell’antipolitico, si sa degli stretti legami tenuti, fin dagli anni sessanta, con il mondo politico. E sempre con un solo obiettivo: ottenere favori. Dalle rotte aree su Segrate, alle concessioni edilizie, dai finanziamenti da parte delle anche alle vicende delle televisioni. Coperture e scoperture. Una mano lava l’altra e tutt’e due si fregano l’asciugamano. Pochi mesi dopo la sortita da Mike Bongiorno, il Cavaliere interviene l congresso di un partito politico. E’ il 15 maggio 1991 e per la prima volta lo accoglie il palco del PSDI. Riferiscono le cronache che le sue parole sono un vero omaggio al segretario Carlo Vizzini, oggi deputato Pdl, oltre che chiacchierato collettore di voti e provvidenze a Palermo, allora titolare del ministero-chiave che sta a cuore alla Fininvest: quello delle Poste e Telecomunicazioni. Il PSDI è anche il partito che, una decina d’anni prima, era finito nell’occhio del ciclone perché i suoi segretari erano iscritti alla P2, come il confratello Pietro Longo. Un mese e mezzo dopo, Berlusconi corre ad un altro congresso, quello socialista di Bari del 30 giugno. Come non farsi vedere dall’amico Bettino Craxi? Il 5 agosto l’attivismo del Cavaliere ottiene un tangibile risultato: il Parlamento approva la legge di riordino del sistema televisivo (la cosiddetta legge Mammì), che consente alla Fininvest di conservare le tre reti televisive nazionali, oltre alle trenta emittenti locali. Il 30 novembre, altro meeting importante. Si tiene all’hotel Principe di Savoia, a Milano. E’ qui che avviene l’incontro tra Berlusconi e il Presidente del Consiglio Andreotti. Il patron della Fininvest si dichiara pubblicamente favorevole a un accordo forte e stabile per il futuro tra Dc e Psi. Come dire? Queste sono le mie preferenze. Mie, dei mie giornali e delle mie televisioni. Addio imparzialità!

Però, le elezioni politiche del 1992 rinsaldano amicizie ed alleanze. All’orizzonte, intanto, si intravvedono grossi nuvoloni. E tempesta. Soprattutto per l’amabile Cavaliere d’Arcore. Si tratta dei rombi sordi della nascente Tangentopoli, che da Milano cominciano ad udirsi nelle redazioni dei giornali. Il primo segale, come si sa, è l’arresto di Mario Chiesa, il corrotto esponente socialista presidente del Pio Albergo Trivulzio (la ‘Baggina’), avvenuto il 17 febbraio 1992, appena 48 giorni prima delle elezioni politiche. Con disprezzo pari solo all’arroganza Craxi liquida la vicenda con la definizione di ‘mariuolo’ per il malcapitato Chiesa, sola mela guasta tra milioni di succosi frutti doc. Da lì a poco, si scoprirà che proprio Craxi è il re delle tangenti.

Che anno, quell’anno!

Quello è l’anno – il 1992 – della morte di Giovanni Falcone (23 maggio), dell’elezione alla carica di Presidente della Repubblica di Oscar Luigi Scalfaro (25 maggio) e dell’attentato a Borsellino (19 luglio). Chi potrà mai dimenticarlo? Trattative tra mafia e Stato? Papelli? Allora, i più (cioè i comuni cittadini) non ne sanno nulla. E non sospettano nulla, naturalmente. Intanto, l’elezione a Presidente della Repubblica dell’esponente della sinistra Dc appare come un pessimo segnale per il CAF e per Berlusconi, primo megafono massmediatico del convivio d’assalto. Sia pure discretamente, davanti agli avvisi di garanzia per faccendieri, imprenditori, uomini politici, funzionari e compagnia bella, Mr. Fininvest inizia le prove tecniche per il suo lancio in politica. Nella politica ‘politicata’, intendiamo. Il 13 giugno, S. Antonio da Padova, nel corso di un convegno a Villa d’Este, sul lago di Como, a un giornalista che gli chiede quale sarebbe il suo candidato premier preferito, risponde: “Chi può dirlo? Però ho letto sull’ ‘Indipendente’ un sondaggio nel quale il 76% degli intervistati ha fatto il mio nome: se le cose stessero così, se in tanti me lo chiedessero, magari potrei farci un pensierino”. Nel frattempo, Scalfaro non offre l’incarico di formare il nuovo governo a Craxi: altro brutto segnale per il leader Psi. La bufera si avvicina sempre più. E non vengono chiamati neanche gli amici di Berlusconi. Niente Forlani, niente persino Andreotti. Viene chiamato, invece, un delfino di Craxi, Giuliano Amato, un docente di diritto che più volte ha assunto posizioni autonome e defilate rispetto a quelle del leader.

Ad Arcore, nel mentre, si trema. Fibrillazione. Tangentopoli avanza e il 15 settembre il nome della Finivest fa il suo ingresso ufficiale in uno dei filoni di indagini. A fare il nome della società al pm Di Pietro è Augusto Rezzonico, ex presidente delle Ferrovie Nord e poi senatore Dc. Racconta, Rezzonico, che nel precedente febbraio, proprio mentre le manette scattavano ai polsi del ‘mariuolo’ Chiesa, nella nuova legge istitutiva del nuovo codice della strada, DC e PSI hanno inserito un emendamento, passato inosservato ai più, per favorire “la Fininvest, gruppo Berlusconi, unica accreditata depositaria del know-how tecnico necessario per la realizzazione di un sistema di segnalazione elettronico per le autostrade, chiamato Auxilium, un business valutabile 1.100 miliardi di lire (…). Noi della Dc aspettammo che qualcuno della Fininvest si facesse vivo”. Il contato era avvenuto tra Sergio Roncucci, capo delle relazioni esterne di Edilnord, la società edilizia con a capo Berlusconi, e lo stesso Rezzonico. “Prima di tutto – dice il democristiano – Roncucci mi ringraziò e mi confermò l’impegno della Fininvest per far fronte alle contribuzioni in favore della Dc per il favore ricevuto”.

Nel secondo semestre dello stesso ’92, nei giornali già circola la voce di un prossimo impegno in politica da parte del Cavaliere. Tanto più che, alle varie convention di imprenditori, piccoli, medi, grandi o giganteschi, Berlusconi, oltre ad insistere con gli astanti perché investano in pubblicità sulle reti Fininvest, si lascia andare in considerazioni sempre più apparentemente spassionate e spericolate sulla situazione politica del paese e sul rischio di un avvento al potere della sinistra. Tra i primi a indicare le velleità politiche del Cavaliere c’è Giovanni Valentini, ex direttore dell’ “Espresso” ed editorialista de “La Repubblica”. Il 6 novembre, sul settimanale “Venerdì”, scrive: “Adesso che la politica è arrivata al fondo e il potere di Berlusconi si è ulteriormente dilatato, diventa attuale il rischio che Sua Emittenza riesca a convogliare il consenso attraverso i canali della comunicazione di massa (…). Nella futura Repubblica basata sulla telecrazia, Berlusconi potrà persuadere gli italiani a comprare fustini di detersivo come a vendere voti, scegliere un film come un leader (…). Il presidente della repubblica, il presidente del Consiglio e giù fino al sindaco verranno eletti a furor di popolo, secondo gli input de televideo. Sarà il trionfo, l’incoronazione di Berlusconi, re dei mass-media, sovrano di tutti i circenses, imperatore dell’etere”. Azzecca tutto, Valentini. Avrebbe dovuto aggiungere, da conclusione del periodo: e sultano delle etère, metaforiche e no.

Quaranta giorni dopo, il 15 dicembre, Tangentopoli surriscalda il clima politico e giudiziario italiano: Craxi riceve il primo avviso di garanzia per il reato di ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. L’11 febbraio successivo, Craxi si dimetterà dopo aver ricevuto altri cinque avvisi di garanzia, concludendo una parabola a capo del PSI durata 16 anni e 7 mesi. Ma il terremoto non s’arresta. Molti altri sì. E a molti altri pervengono avvisi di garanzia a domicilio. Il 27 marzo Andreotti viene accusato dai magistrati di Palermo di concorso esterno in associazione mafiosa; il 5 aprile tocca a Forlani: è accusato degli stessi reati di Craxi. L’8 aprile è la volta di Gianni Letta, vicepresidente della Fininvest. Davanti ai pm, ammetterà che nel 1989 ha versato nelle casse del PSDI una settantina di milioni di lire. Ma le disgrazie non arrivano mai da sole. Oltre alle vicende giudiziarie che coinvolgono i suoi uomini e, quindi, la sua azienda, Berlusconi deve affrontare un nemico ben più temibile: la crisi finanziaria del gruppo. E’ il momento di accelerare l’ingresso in politica.

Il 15 aprile 1993, otto giorni dopo il coinvolgimento di Letta, Berlusconi convoca in gran segreto ad Arcore i dirigenti della Mondadori. E’ il primo annuncio della sua “discesa in campo”: “C’è il fondato pericolo – sostiene – che si crei una situazione ostile ai nostri interessi. Bisogna prepararsi a scendere sul terreno politico”. Da quel giorno, cene, contatti, pranzi di lavoro, incontri, patti, telefonate, fax. Manovre per sondare la fattibilità della cosa agli occhi di politici, imprenditori, finanzieri. Il tutto con circospezione e accompagnato da dichiarazioni di segno opposto. Ad ogni piè sospinto sbuffa che è stufo di essere ostaggio dei partiti, schiavo persino. Ma la realtà delle cose dice chiaramente il contrario: lui grazie ai partiti ed agli amici Craxi, Forlani, Andreotti, e grazie ai confratelli piduisti ha prosperato, ha costruito un impero massmediatico ed una ricchezza le cui radici affondano in zone misteriose ed ambigue della finanza nostrana. Ma ora, la situazione è vicina al collasso. Bisogna darsi una mossa. Nel primo semestre del 1993, la raccolta pubblicitaria, il polmone finanziario della Fininvest, fa registrare un modesto aumento del 4,5%. Inoltre, si parla insistentemente di una imminente cessione della Standa, che ritarda i pagamenti ai fornitori, e di un consistente pacchetto azionario della spagnola Telecinco. Alcuni giornali riferiscono che il produttore cinematografico Vittorio Cecchi Gori, socio di Berlusconi al 50% nella Penta, pur di incassare i 200 miliardi che gli spettano per il pagamento dei diritti di antenna, gli concede una dilazione in 48 rate mensili. Sabato 5 giugno, davanti a pochi, selezionati dirigenti della Fininvest e ad alcuni giornalisti amici, tra cui l’inviato di Montanelli, Federico Orlando, Berlusconi dichiara: “io sono interessato a non fallire; non ho neanche una casa perché sono tutte delle banche, verrò da voi per un piatto di minestra. Andiamo a fondo io, il Paese e tutti voi, se si va nella direzione politica di sinistra (…). Non c’è nulla fra le cose che esistono che possa salvarci. Io però vedo una nuova forza politica centrale guidata da me; un rassemblement delle forze moderate, compresa la Lega, che è ferma al Po. Altri leader oltre me non ci sono: Cossiga è incostante, Amato gioca con Eta Beta, Agnelli, al termine di una lunga telefonata nella quale gli ho fatto un quadro disperato della situazione, mi domanda: ‘Come sta Van Basten?’. Gli ho sbattuto il telefono in faccia.”

In quei mesi cruciali del 1993, Berlusconi , grazie alla mediazione del factotum Dell’Utri, invita ad Arcore Ezio Cartotto. Chi è costui? Già braccio destro di alcuni big come l’ex ministro Giovanni Marcora e Piero Bassetti, è un esperto di formazione politica. Si presenta a casa di Berlusconi con il figlio Davide. C’è una riunione segreta. I due, Cartotto e Berlusconi, si conoscono fin dall’inizio degli anni ’70. Giunto nel salotto buono del capo Finivest, viene subito informato che c’è un altro ospite. E che ospite! Bettino Craxi. I tre cominciano ad analizzare la situazione politica italiana. Craxi cammina nervosamente avanti e indietro. Quando Cartotto nomina Martinazzoli, Bettino sbotta, rivolto a Berlusconi: “Martinazzoli è della sinistra Dc, per te è peggio di Occhetto. Quelli della sinistra Dc sono i tuoi nemici, ricordatelo sempre, più di quelli del Pds. Non farti illusioni (…). Bisogna trovare un’etichetta, un nome, un simbolo, un qualcosa che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Sarebbe importante distinguere tra Nord e Centro-Sud.” Craxi, al Nord, suggerisce un accordo con la Lega. Ma Berlusconi accoglie freddamente la proposta. Per il Sud, nessun problema per un’alleanza con Fini. Craxi continua: “ con l’arma che tu hai in mano delle televisioni (…) ti basterà organizzare un’etichetta (…), hai uomini sul territorio in tutta Italia, puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso….” Dopo questo colloquio, il grande capo si convince: il partito si farà. E lo comunica a Dell’Utri, fautore del progetto fin dalla prima ora. Si era tentato di convincere prima Mario Segni e poi Mino Martinazzoli: che fossero loro a lavorare per lui, mentre le sue televisioni erano messe a disposizione del nuovo soggetto politico. Ma i due dicono no. La situazione è pessima: 5 mila miliardi di debiti non sono pochi e Franco Tatò, l’amministratore delegato del gruppo che paventava una dichiarazione di fallimento, con i libri in tribunale. Solo Dell’Utri preme per il partito. Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Maurizio Costanzo, Indro Montanelli, Federico Orlando, Giorgio Gori sono per il non scendere in campo. Successivamente ai favorevoli si associano anche Cesare Previti ed Ennio Doris, presidente di Programma Italia.

La collaborazione con Cartotto non dura. Come racconterà egli stesso ai giudici di Palermo e Caltanissetta, nell’ambito del processo a carico di Dell’Utri, viene liquidato perché esterno all’azienda Fininvest e quindi non può avere il principale requisito richiesto: un legame di dipendenza con l’azienda.

Nel frattempo Berlusconi ed il fedelissimo Dell’Utri scartano le ipotesi di aggancio o collaborazione con partiti già esistenti, come la Lega di Bossi. Anzi, dal Carroccio partono critiche velenose. Al Cavaliere i leghisti ricordano i suoi trascorsi all’ombra del CAF. Attraverso alcune interviste, Bossi fa intendere di non avere intenzione di pagare il resto dei 300 milioni pattuiti con le reti Fininvest per la campagna elettorale e qualche altro leghista ironizza sul fatto che il cavaliere voglia fondare una sorta di “Lega dei ricchi”. In questo clima, Roberto Maroni, numero due del Carroccio, in un’intervista al mensile “Prima”, nel settembre 1993, afferma: “Berlusconi vuole entrare in politica? Che lo faccia. Però non credo sia una buona scelta. Gli imprenditori in politica fanno disastri: curano i loro interessi e fanno lobby. Se proprio volesse mettersi in politica, farebbe quindi meglio a sommettere di guidare la Fininvest (…).” Di lì a pochi mesi, la Lega diventerà alleata di Forza Italia e Maroni andrà al Viminale come ministro degli interni. Niente male, no? Acide le dichiarazioni di Silvano Labriola, vicepresidente della Camera del PSI, uno dei pochi a non essere sfiorato da Tangentopoli: “Con chi ha deciso di stare Berlusconi? Ma naturalmente con chi vince. Per questo, ora, essendo la politica ancora nelle nebbie, sta sulle punte, assaggia, si sporge poco. Forse medita di ancorarsi al Sud alla Dc di Ceppaloni (paese natale di Mastella, ex segretario di De Mita, nda) e al Nord a quella di Martinazzoli, ma ha paura per il momento di fare passi affrettati. La sua area politica comunque è quella del centro cattolico-liberale (…). Da ricordare sempre, per la storia, la rapidità con la quale Berlusconi a Milano e dintorni ha scaricato con Tangentopoli gli amici socialisti, è stata un’operazione di grande tempismo (…).”

Orami la decisione è presa: si va in campo. E Berlusconi, pur di farlo, accetta il diktat delle banche creditrici (la Commerciale, La banca di Roma, il Credito Italiano) che, il 5 ottobre ottengono che il timone della Finivest passi in altre mani, in quella di Franco Tatò.

L’informazione in tasca, la libertà in pugno.

Come sarà palese in seguito, nel secondo semestre del 1993 Berlusconi è totalmente assorbito nella preparazione della sua creatura politica. Ma lui smentisce: “Non ho alcuna intenzione – sostiene – di promuovere movimenti di opinione, di fare lobby, non sono disposto a entrare in politica.” Poi, sabato 25 settembre, convoca ad Arcore i direttori delle testate Mondadori e delle emittenti tv e spara: “Ho studiato i problemi dell’Italia in termini aziendali: in appena due anni potrei risistemare tutto (…). Noi pensiamo che il cambiamento non può risolversi rimandando al potere gli uomini del passato.” Dopo di che, invita i presenti ad opporre “un muro contro muro” nei confronti dei giornali della concorrenza. L’unico a dire no è Andrea Monti (di “Panorama”), che ribatte di non voler cambiare linea politica. Due settimane dopo il cavaliere rilascia una nuova intervista ad “Epoca”, settimanale di casa. Intervista che mostra non poco la doppiezza dell’uomo. “L’informazione – afferma – è un bene prezioso, un bene comune anche quando la proprietà è di un privato (…). A maggior ragione ora che ho scelto di impegnarmi in una battaglia di libertà. Noi non abbiamo giornali-partito (…). Ai direttori dei telegiornali Fininvest e dei settimanali Mondadori ho sempre garantito – come l’ho garantito a Montanelli, finché sono stato il suo editore – il massimo di libertà.” Dove sta la doppiezza? In questo. Circa dieci anni prima (nel 1983), il cavaliere aveva già dato prova della sua democratica visione del problema. La cosa emergerà con chiarezza nel corso delle udienze preliminari del processo a Dell’Utri del 31 marzo e del 1° aprile 2003, che i giudici di Palermo tengono nell’aula-bunker di Piazza Filangeri, a Milano. Si tratta di intercettazioni telefoniche effettuiate il 27 agosto 1983. Craxi, presidente del Consiglio dal 4 agosto, telefona a Berlusconi per lamentarsi di un articolo del “Giornale”, che gli dava del “guappo” e di una foto di Spadolini, riferita alla prima seduta del Consiglio dei Ministri convocata, invece, dal nuovo premier. Berlusconi si arrabbia e rassicura Craxi: “Adesso basta, a questi gli taglio i fondi. Vado al ‘Giornale’ e batto i pugni sul tavolo. E se Indro fa le bizze lo prendo a calci in culo.” Poi telefona al condirettore Biazzi Vergani e, riferendosi al leader Psi, gli raccomanda: “Dobbiamo tenercelo buono. Craxi tra poco ci farà avere le concessioni per le Tv”, oltre a un altro favore che non può essere riferito telefonicamente. E conclude: “Per ora a Montanelli non dire che ti ho chiamato.” Come racconterà anni dopo Federico Orlando, in quel 1993, Berlusconi, scavalcando Montanelli fa scrivere da Antonio Martino (futuro deputato forzista, nonché ministro della Difesa) articoli critici contro De Benedetti. A perorare la sua discesa in campo chiama Giuliano Urbani. Berlusconi si infuria perché – nella campagna elettorale per le amministrative – il quotidiano osa critica Illy, candidato a Triste per il centro-sinistra. La reazione non è dettata da un improvviso voltafaccia, ma da motivi più venali. Questione di soldi. “La critica del ‘Giornale’ a Illy – spiega Orlando – sarebbe costata alla Fininvest 8 miliardi di pubblicità.” Nella sua verve, Berlusconi impone come collaboratori del giornale Gianstefano Frigerio, Maurizio Prada (rispettivamente segretario regionale e segretario cittadino della Dc), nonché il commercialista socialista Pompeo Locatelli. Tutti e tre arrestati nel corso di Tangentopoli. Ma non solo. Berlusconi è in pressing sul duo Orlando-Montanelli per farsi scrivere un fondo a difesa delle sue scelte politiche. L’articolo che Montanelli manda addirittura ad Arcore (con copia per Confalonieri) è double face: da una parte critica senza mezzi termini la scelta berlusconiana, dall’altra traccia dell’imprenditore un ritratto che definire encomiastico è una bazzecola. “Certamente – scrive l’anziano giornalista – anche Berlusconi avrà i suoi difetti e le sue colpe. Ma un soldo che è un soldo allo Stato non lo ha mai chiesto, un lavoratore che è uno in cassa integrazione, cioè al contribuente, non lo ha mai accollato. La grande impresa televisiva, nella quale tutti gli altri prima di lui erano falliti, l’ha costruita e condotta al successo con le sole forze ed a proprio esclusivo rischio, senza chiedere aiuto a nessuno. Ed infine, nonostante tutto quello che il pool Mani Pulite ha fatto per incastrarlo – ce ne siamo accorti tutti, ce ne siamo accorti – Berlusconi è uno dei pochissimi imprenditori indenni da tangenti e mazzette. Perché è più onesto degli altri, o soltanto più abile? Non lo so. Fatto sta che tutte le indagini svolte contro di lui e contro gli uomini a lui più vicini si sono sempre concluse, almeno finora, con un ‘non luogo a procedere’.” Ma questo sviolina mento non gli salverà il posto. Il 9 gennaio 1994, dopo un pranzo con il Cavaliere, montanelli comunica ad Orlando che l’indomani lascerà il giornale. Al suo posto arriva Vittorio Feltri, un uomo una garanzia.
Giuliano Urbani, intanto, svolge il compitino. Mentre in gran segreto (ma mica tanto…) si lavora a metter su il partito-azienda, allo scoperto si continua a smentire qualsiasi impegno politico del patron. Il 9 novembre, il professore perugino viene intervistato da Gian Antonio Stella, per il “Corriere della Sera”. “Il partito di Berlusconi non esiste.” Afferma candidamente. “Non avrebbe senso. Un partito, poi, proprio ora che i partiti hanno fatto il loro tempo (…). Il partito della Fininvest è una sciocchezza (…). Comunque sconsiglio a Berlusconi di buttarsi in politica.” A questo punto, il giornalista chiede: “Perché non dovrebbe?” e lui risponde: “Ma perché con tre reti televisive non sarebbe una gara alla pari. Come se in America corresse Ted Turner, il padrone della Cnn (…)”. Se lo dice lui…. Inutile puntualizzare che da lì a poco Urbani sarà candidato in ben tre collegi (Piemonte 1, Lombardia 1 e Umbria): verrà eletto soltanto grazie al sistema proporzionale e pochi mesi dopo sarà nominato componente della Commissione Affari Costituzionali e, in seguito, anche ministro della Funzione pubblica e Affari regionali. Intanto, si fa strada un’altra strategia: l’anticomunismo. Utile. Montanelli e Orlando, credendo probabilmente di fare cosa gradita al Capo, aderiscono al Patto di rinascita nazionale, di vago sapore gelliano. Ideato dal cattolico integralista Leonardo Mondadori, partner di Berlusconi e membro dell’Opus Dei, il Patto trova consensi anche a sinistra (Saverio Vertone), ma si rivolge in particolare al mondo cattolico (Rocco Buttiglione) e laico (l’ex filosofo marxista Lucio Colletti). Il 1° dicembre, con grande evidenza il “Giornale” dedica all’evento un titolo esplicativo: “Sarà diffuso oggi il manifesto per l’unità dei democratici laici e cattolici. Appello all’area moderata per evitare un governo guidato dal Pds. L’anticomunismo non può essere affidato solo a Lega e Msi.” Lo stesso Orlando scrive un corsivo intitolato “Uniti contro il comunismo”. Tra l’altro, vi si afferma che “solo un rassemblement di tutti i moderati (…) può garantire il nostro Paese dall’instaurazione di un nuovo regime. E un regime nascerebbe se la coalizione del Pds vincesse le prossime elezioni politiche (…).”
Sembrerebbe una completa adesione ai principio berlusconiani. Ma non è così. Gli ideatori pensano più che altro a Mario Segni, non a Berlusconi. E questo scatena l’ira del Cavaliere: Montanelli va cacciato.

Intermezzo: altri orfani

Il pentapartito muore. A chi affidarsi? E’ questo anche l’interrogativo della mafia, di Cosa Nostra. Ancora nel 1991 i mafiosi hanno fiutato che qualcosa sta cambiando. “Già nel 1991 – scrive Peter Gomez - quando diventa chiaro che in Cassazione la sentenza del maxi-processo istruito da Falcone verrà confermata, Riina e i suoi cominciano a discutere nuove possibili alleanze politiche. Ce l’hanno con la Democrazia Cristiana che, secondo loro, non ha saputo garantire le assoluzioni come promesso. Ce l’hanno con il socialista Claudio Martelli che, una volta diventato ministro della Giustizia, ha scelto Falcone come direttore degli Affari penali del ministero. Vengono messi in programma i primi omicidi eccellenti. Si comincia a pensare alle stragi.” Intanto, come segnale forte e chiaro, nel marzo del 1992, fanno fuori Salvo Lima, non più utile, non più garante, non più in grado di influire aggiustando processi e modellando equilibri. Poi, si apre l’era stragista della mafia: Falcone, Borsellino. E poi l’attacco in grande stile del 1993 con le bombe a Roma, Firenze e Milano.
Cosa vuole la mafia? E’ dalla primavera del 1993 che in seno a Cosa Nostra sono convinti di dover cercare nuovi e affidabili referenti politici. Basta con i soliti, inservibili, tappabuchi della Prima Repubblica. Basta con democristiani e socialisti, che non hanno nemmeno saputo tutelare se stessi. Basta, aria nuova, ci vuole. E ci vuole, soprattutto, un nuovo partito. Un partito di riferimento. Agile, forte, affollato, dentro il quale coltivare interessi e tessere le fila di amicizie e condivisioni. Un partito nazionale. Magari liberale e anticomunista. Al nord sta spopolando la Lega. E al Sud che si fa? Lo stesso. Si mettono su Leghe a tutto spiano. Ne nascono di tutti i tipi. Ma soprattutto populistici. All’hotel Midas di Roma nel ’90 nasce la Lega meridionale Centro- Sud-Isole (diffidata dall’usare quel nome da un’altra “Lega Meridionale” ). Si presenta subito offrendo la candidatura a Vito Ciancimino (che declina) ed a Licio Gelli, che invia un sentito augurio a “quanti si riconoscono nell’ideale di ricostruire un’Italia democratica, onesta, pulita per un suo futuro di prosperoso benessere”. Nello stesso torno di tempo sboccia “Noi Siciliani”, capace di portare un deputato (Nino Scalici) all’Assemblea regionale grazie anche al traino del nome di Teresa Canepa, figlia di Antonio, fondatore, nel 1946, dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia. Sempre all’inizio degli anni novanta spunta la “Lega Sud –Ausonia” controparte, anche nella denominazione, della Lega Nord-Padania, con intenti spiccatamente federalisti, ma non tralasciando il secessionismo. Spuntano poi i vari “Centri di azione agraria” e “Noi Meridionali”, “Uniti per la Puglia” e “Uniti per Matera”, il “Partito del Sud” e l’ “Unione federalista meridionale”, fino a “Uniti per Castrovillari”, a “Noi Borbonici” ed alla “Lega di Azione Meridionale – AT6” (dove AT6 è un acronimo di Antenna Taranto 6) di Giancarlo Cito. Ma, tra il settembre e l’ottobre del 1993, spunta una nuova sigla, “Sicilia Libera”. Una delle tante? Non esattamente. Infatti, è il partito-movimento messo all’impiedi da Leoluca Bagarella. Insomma, direttamente da Cosa Nostra, in prima persona. A dire il vero non tutti sono convinti dell’operazione. Almeno a detta del pentito Nino Giuffrè. Troppi uomini d’onore in quel partito, troppa gente con precedenti penali o con conti in sospeso verso la giustizia. Troppa pubblicità e visibilità. Il progetto stenta a decollare. Provenzano è diffondete. Don Binnu non crede all’iniziativa, neanche lui. Non è mica un alloco, non si fa mica attirare dalle lucciole. Scruta quel che avviene in un’altra parte d’Italia, al Nord. E di movimenti, lì, se ne intravedono. Movimenti interessanti, da seguire con attenzione. “Il Capo dei Capi – scrive Giuseppe D’Avanzo su Repubblica nel 2002-, ora che Riina è in galera, può contare su tre promettenti canali, a credere in Giuffrè. Il primo score da Agrigento e Sciacca verso Milano e si muove da Giovanni Brusca e Salvatore Di Ganci fino a un avvocato già noto alle cronache, Massimo Maria Berruti (già ufficiale della Guardia di Finanza, collaboratore di Berlusconi, ora onorevole di Forza Italia). Il secondo canale arriva fino a Marcello dell’Utri attraverso Vittorio Mangano, ‘stalliere’ ad Arcore. Il terzo è in appalto ai ‘palermitani’ di Brancaccio, i fratelli Graviano, appunto. Tutte le strade, dice sorprendentemente Giuffrè, giungono a Silvio Berlusconi, ‘una persona abbastanza capace di poter portare avanti, diciamo, un pochino le sorti dell’Italia’.” Usando questi canali Provenzano propone al quartier generale milanese le ‘richieste’ di Cosa Nostra, in cambio dell’appoggio politico-elettorale. Le risposte non si fanno attendere e – sostiene Giuffrè – sono positive: “interessava il discorso dei carcerati, il 41 bis…. Abbiamo il problema della revisione dei processi, abbiamo il problema dei pentiti, abbiamo il problema dei sequestri dei beni e sono i discorsi più importanti. Ne resta ancora uno, un certo alleggerimento della magistratura nei confronti degli imputati, nelle condanne diciamo, questa impunità di cui avevamo in precedenza parlato: associazione mafiosa sì, ma niente ergastoli.” Da Milano, abbiamo detto, arrivano buone nuove. La cosa si può fare. Tra gli uomini di Cosa Nostra sbocciano l’ “euforia” e l’ “ottimismo”. La nuova linea strategica la detta lo stesso Provenzano a Giuffrè: “Amu a vutari Forza Italia.” E Giuffrè puntualizza: “Si trattava di Forza Italia. Provenzano ci disse di appog¬giarlo. La direttiva di votare questo nuovo partito, secon¬do quello che mi disse, era col¬legata alla trattativa per risol¬vere i problemi che avevamo in quel momento, dai conti¬nui arresti agli ergastoli, dal carcere duro al sequestro dei beni. Sosteneva che nel giro di qualche anno avremmo ri¬solto tutto, e che con Forza Ita¬lia eravamo in buone mani”. Fece dei nomi in particolare? - chiedono i giudici. “Quelle persone che già era¬no in contatto con Cosa no¬stra, come Marcello Del¬¬l’Utri”. Il nome di Dell’Utri non è la prima volta che viene fatto. Già alla fine del 1993, il pentito Pietro Ilardo, poi ucciso nel 1996, negli incontri con il colonnello Michele Riccio, aveva parlato di Marcello Dell’Utri come del “contatto stabilito da Bernardo Porvenzano con un personaggio dll’entourage di Berlusconi”. Un contatto che aveva dato assicurazioni che ci sarebbero state iniziative giudiziarie e normative più favorevoli e anche aiuti a Cosa Nostra nell’aggiudicazione degli appalti e dei finanziamenti statali.” Lo stesso tipo di rapporto (“aggancio” lo chiamano) hanno confermato, anche di recente, ai giudizi di Firenze che indagano sulle stragi occulte del ’93, Giovanni Brusca e Gaspare Spatuzza, pentiti eccellenti di Cosa nostra, tanto che a Palermo, i magistrati stanno valutando se riaprire i fascicoli archiviati nel 1998 a carico dei due politici del Pdl. In cambio della referenzialità politica, ovviamente, niente più stragi, ammazzamenti, bombe come quelle a Roma, Firenze o Milano. O quella, mai esplosa, davanti allo stadio Olimpico, sempre a Roma. E poi, mai più a braccetto coi candidati alle elezioni. Mai più cene pantagrueliche con candidati, amici, amici degli amici, coppole e brillantina, signore ingioiellate e santini in mano ai picciotti. Tutto questo non andava più. Discrezione, ci voleva, ché i giudici ormai avevano le antenne. E tutto viene eseguito secondo le istruzioni. Tranne qualche piccola imprudenza. Quando siamo proprio a ridosso delle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994. Esattamente il 4 febbraio, un principe, uno di quei principi della cosiddetta nobiltà nera romana, amico della Massoneria e di Gelli in persona e con un blasone lungo quanto l’elenco telefonico, di nome Domenico Napoleone Orsini. Bene, il principe Orsini da qualche tempo ha preso una sbandata per la Lega di Umberto Bossi, tanto che ne ha una fondata pure lui: “Lega Italia federata” si chiama. Che ha anche ospitato una sera il leader della Lega in un salotto gremito di belle signore, giornalisti e uomini d’affare e di politica. A Roma. Nella Roma ladrona. Quel fatidico 4 febbraio, orsini comincia abbastanza presto a telefonare agli amici. Abbastanza presto per un principe, s’intende: le 10,50. A quell’ora – dicono i tabulati - chiama Stefano Tempesta, un leghista vicino al partito di Bagarella “Sicilia Libera”. Non è dato sapere di cosa parlino. Ma, nel pomeriggio, altre telefonate corrono tra Nord e Sud dello Stivale. Alle 15,55 Orsini chiama Tullio Cannella, uomo di Bagarella, il più presentabile, a quel momento, di “Sicilia Libera”, quello che, da pentito, nel 2001 parlerà dei contatti tra Marcello Dell’Utri e i Graviano, riferendo episodi di sei anni prima, cioè del 1995. I due, Orsini e Cannella, parlano. Probabilmente di politica. Probabilmente in vista di qualche accordo. La sensazione – considerati anche i contatti successivi, nel di quella giornata – è che Orsini sia un a sorta di mediatore. Alle 16, 14 sempre Orsini chiama la sede di Palermo di “Sicilia Libera”. Alle 18,43 l’attivissimo Orsini – evidentemente in possesso di notizie rilevanti provenienti dalla Sicilia – chiama Arcore, parla con Silvio Berlusconi. Subito dopo, fa squillare il telefono di Marcello Dell’Utri. Altra chiacchierata. Alle 19,01, dopo avere chiuso con Dell’Utri, richiama Stefano Tempesta, il leghista amico dei siciliani di “Sicilia Libera”. Tempesta non c’è? O servono altri chiarimenti? Non si sa, fatto sta che una nuova telefonata raggiunge il leghista alle ore 19,20, a farla sempre Orsini, il mediatore, si direbbe. Punto. La storia finisce qui. O meglio, inizia qui. Da lì a poco, “Sicilia libera” scomparirà. Forza Italia sarà presente e forte in Sicilia, accogliendo i più presentabili del disciolto movimento bagarelliano. Lo stesso faranno buona parte delle altre leghe meridionali: o scompariranno, anche come sigle autonome, ed i loro uomini confluiranno in Forza Italia, o si alleeranno con il “Polo delle Libertà” (che al Sud, invero, si chiamerà “Polo del Buongoverno”) oppure resisteranno, ma avranno vita magra e difficile: alle elezioni, intorno allo 0 virgola. Ma c’è di più. Alle 18,11 del 19 marzo, quando mancano dodici giorni alle elezioni, gli inquirenti intercettano – tra molte – una telefonata all’utenza telefonica 091.6882…. tra il massone-mafioso Pino Mandalari (ex commercialista e socio di Totò Riina), sotto inchiesta, e Giovanni Ferlito. Questi chiama Mandalari, tra l’altro attivista del neopartito forzista e fondatore di una sua sezione a Palermo. Ecco il dialogo, tratto dal libro L’orgia del potere di Mario Guarino:

- Ferlito: In questo monmento ti ho disturbato?
- Mandalari: No, no, Giovanni, domani c’è Silvio a Palermo!
- Ferlito: Sì, domani c’è Silvio, tu cobn lui ti sei visto?
- Mandalari: Sì, sì, sì!
- Ferlito: Eh?
- Mandalari: Sì, già precedentemente.
- Ferlito: Vi siete visti già?
- Mandalari: Sì, sì!
- Ferlito: Quindi tutto predisposto. Hai parlato pure di me… no?
- Mandalari: Sì… della tua situazione, sì.
- Ferlito: Come?
- Mandalari: Lui mi ha detto che appena possibile ti scriverà una lettera.
(…)
- Ferlito: No, dico con Silvio vi siete incontrati qua a Palermo?
- Mandalari: No, no, non è sceso… domani scende, stasera arriva lui… ci siamo incontrati fuori…
- Ferlito: Ah, fuori? Vi siete incontrati fuori?
- Mandalari: Sì, sì!
- Ferlito: Quindi di me ne hai parlato… va bene.
- Mandalari: Certo! E lui mi ha detto… appena possibile… appena fionisce tutta questa baraonda gli scriverò.
- Ferlito: Io, io gli ho detto… io gli ho mandato un pacco da 16.
- Mandalari: Sì, me lo ha detto, sì, sì.
- Ferlito: Lo sapeva lui?
- Mandalari: Sì, esatto, sì.
- Ferlito: Va be’, comunque io rinnovo i migliori auguri a te e…
- Mandalari: Grazie, grazie., Gianni, ‘u frate, ti ringrazio.

Restano alcuni interrogativi. Mandalari e Berlusconi si sono incontrati davvero il 20 marzo? E , ancora, cos’è questo “pacco da 16”, cosa conteneva vista che le feste natalizie sonopassate da un pezzo? Qualcuno sospetta… Quasi un anno dopo, il 25 gennaio 1995, Vincenzo scarantino, coinvolto nella strage di Via D’Amelio, enlla quale morirono Borsellino e gli uomini della sua scorta, rivelò qualcosa di interessante, che il quotidiano la “Repubblica” pubblicò: “Dopo aver racontato (ai giudici) i dettagli della preparazione della strage, Scarantino ha fatto il nome di Berlusconi al quale, secondo il pentito, mandavano tanta di quella cocaina (…) che Ignazio Pullarà mi riferì che gli mandava due chili di cocaina ogni 20 giorni-un mese (…). Per le feste Berlusconi mandava 50 milioni alla “famiglia” di Santa Maria del Gesù.” Che era, poi, la famiglia mafiosa di Vittorio Mangano, a capo della quale c’era Pippo Calò. Alle opesanti acuse di Scarabntino, Berlusconi replicherà con ironia: “Sì, è vero, mi mandavano anche dieci cannoni, quattro carri armati e, naturalmente, a mesi alterni, un sottomarino”. Che si sappia, senza querelarlo. Strano, considerato l’alto tasso di suscettibilità dell’uomo, che recentemente ha denunciato sia il quotidiano “Repubblica” per le famose dieci domande, alle quali peraltro lui non si è degnato di rispondere, che quattro gionaliste dell “Unità” per avere scritto dei pezzi contro di lui. Senza contare la denuncia a Pietro Ricca per un innocuo “puffone”, da lui inteso come “buffone”.
Ora, mettendo accanto fatti diversi: deposizioni dei pentiti, telefonate, nomi, figure, pacchi, pacchetti e modalità di conduzione, al Sud, della campagna elettorale del 1994 (e delle seguenti), con picciotti di famiglie mafiose che, in città come Palermo, Catania, Agrigento, Reggio, Bari battevano palmo a palmo i sobborghi, santini di Berlusconi e di Forza Italia in mano, mettendo insieme tutto ciò – dicevamo – un’idea di quello che è realmente accaduto ce la possiamo anche fare.

La vittoria arride a chi ride

La macchina organizzativa, intanto, è a pieno regime. Il partito-azienda in poco tempo si dota di una sede coi fiocchi, in viale Isonzo, 25, a Milano. Viene costituita l’Anfi – Associazione Nazionale Forza Italia – con presidente Angelo Codignoni, ex responsabile de La Cinq, la fallita emittente del Biscione in Francia. Vengo raccolti 250 milioni di lire, vendendo agli iscritti kit con adesivi, orologi, distintivi, portachiavi. In tutta Italia vengono inaugurati centinaia di circoli di Forza Italia, molto spesso ex fans club del Milan. Coordinatore del nuovo movimento è l’ex ministro missino Domenico Menniti (qualche mese dopo andrà via polemicamente).
Il 18 gennaio 1994, nell’abitazione romana di Berlusconi, in via Dell’Anima, a pochi metri dall’hotel Raphael in cui alloggia Craxi, davanti al notaio Francesco Colistra, nasce il movimento politico denominato Forza Italia. Sono presenti, oltre al piduista presidente Berlusconi, l’ex aspirante piduista e professore Antonio Martino, l’ex generale Luigi Caligaris, il funzionario Fininvest Mario Valducci e Antonio Tajani, sbiadito redattore de “Il Giornale”. Il battesimo della nuova formazione politica, tre giorni avanti, è stato salutato dalla grancassa mediatica delle televisioni e dei giornali berlusconiani, con valanghe di spot e promo, approfondimenti da parte di tutti i conduttori televisivi, dei giornalisti, di personaggi dello spettacolo come Mike Bongiorno, Gerry Scotti, Iva Zanicchi. E poi, secondo il consolidato cliché berlusconian-craxiano, nani, ballerini, saltimbanchi, mangiafuoco, comici di serie B, interviste alle massaie per strada…
Il 26 gennaio, tirato a lucido come un damerino d’antan, Silvio Berlusconi si presenta davanti ad una sua telecamere, la quale, ha per schermo una calza di nylon per ignora per rendere più affascinante e ammiccante il suo volto. Il proclama lanciato agli italiani ha un titolo tanto banale quanto diretto “Il mio Paese”. In esso, il Cavaliere si produce nelle più abusate e trite frasi demagogiche (“L’Italia è il Paese che io amo”), alliscianti (“…insieme con i molti italiani che mi hanno dato la loro fiducia”), falsamente innovative: “la vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema del finanziamento illecito dei partiti (…). Ciò che vogliamo offrire agli italiani è una forza politica fatta di omini totalmente nuovi….” Vi sono parti smaccatamente ruffiane: “Vogliano un governo e una maggioranza parlamentare, che sappiano dare adeguata dignità al nucleo originario di ogni società, alla famiglia, che sappiano rispettare ogni fdede e che suscitino ragionevoli speranze per chi è più debole, per chi cerca un lavoro, per chi ha bisogno di cure, per chi, dopo una vita operosa, ha diritto di vivere in serenità. Un governo e una maggioranza che portino attenzione e rispetto all’ambiente, che sappiano opporsi con la massima determinazione alla criminalità, alla corruzione, alla droga. Che sappiano garantire ai cittadini più sicurezza, più ordine e più efficienza.” Non male, come blandizie. Blandizie precoci. E non è difficile andare a scorgere le contraddizioni (come il riferimento alla lotta contro la criminalità). Ma il messaggio ‘buca’ tv e coscienze. Gli italiani gli danno fiducia. Alle elezioni del 27 e 28 marzo iol colpo gobbo di Berlusconi riesce in pieno: Forza Italia diventa il primo partito e lui il Primo ministro. In effetti, per gli italiani i nomi nuovi sono tanti. Almeno, per gli italiani (e sono la stragrande maggioranza) che non conoscono la nomenclatura della Fininvest. Ben quindici sono i suoi dipendenti, tra cui i suoi avvocati personali, Vittorio Dotti e Cesare Previti, e parecchi quelli a vario titolo in affari con Publitalia, la concessionaria pubblicitaria della Fininvest. Il presunto ‘nuovo’, tante volte evocato e brandito in campagna elettorale, svanisce appena nasce il nuovo governo. Vi fanno parte Lamberto Dini, super boiardo già ai vertici di Banca Italia; il professore universitario, da anni volto presentabile ed intellettuale di Alleanza Nazionale, Domenico Fisichella; Clemente Mastella, ex braccio destro di Ciriaco De Mita; il confratello piduista Publio Fiori (ex Dc, passato ad AN); il fascista barese Giuseppe Tatarella, uno degli inquilini più longevi di Montecitorio; il professor D’Onofrio, anch’egli di provata fede democristiana e vetusto frequentatore della Camera dei deputati; un’altra antica presenza come quella di Alfredo Biondi, avvocato tosco-ligure, liberale, in parlamento dalla quinta legislatura e frequentatore di massoni incappucciati; l’ex socialista craxiano Giulio Tremonti, candidatosi nel Patto Segni e tre settimane dopo il voto saltato sul carro del vincitore… Nella compagine di governo ci sono anche volti nuovi. Cesare Previti, dirigente Fininvest e avvocato personale del Capo; Gianni Letta, ex direttore del quotidiano di centro-destra “Il Tempo”, anche’egli dirigente Fininvest e conoscitore degli ambienti dei Palazzi romani; Giuliano Ferrara, giornalista ambiguo e dalle casacche cangianti, ex comunista, ex socialista, convertitosi al berlusconismo d’assalto, nonché – come dichiarerà egli stesso – iscritto nel libro-paga della CIA. Ferrara è stato chiamato al neo costituito Ministero per i rapporti con il Parlamento senza essere nemmeno eletto. Che gliel’abbia ritagliato (abbondantemente) su misura, il ministero? Vi è poi il vicino di casa di Berlusconi, Roberto Maria Radice, uno con le mani in pasta nel business dei rifiuti: diventerà ministro dei Lavori pubblici. Tra le file di Forza Italia, poi, abbondano i riciclati. Troviamo Beppe Pisanu, assiduo frequentatore del potente massone Armando Corona e del faccendiere Flavio Carboni, fatto dimettere a metà degli anni ’80 dalla carica di Sottosegretario alle Finanze in occasione dello scandalo del Banco Andino; l’ex senatore del PLI Carlo Pasini Scognamiglio, poi eletto a presidente del Senato; Tiziana Maiolo, già redattrice del quotidiano “Il Manifesto”; la radicale Emma Bonino; l’ex consigliere Dc del Comune di Palermo Enrico La Loggia; l’ex avvocatessa delle femministe e massona Tina Logostena Bassi. Tra i tanti a mettersi subito in mostra c’è Tiziana Parenti, ex pm di Mani Pulite, presentata come il “fiore all’occhiello del partito”. In predicato di occupare il posto di ministro della Giustizia, la Parenti entra in rotta di collisione con il partito quando si accorge che i disegni del cavaliere non collimano con i suoi sogni e che su quella poltrona andrà qualcun altro. Già pochi giorni dopo le elezioni, l’ex pm dà fuoco alle polveri. L’11 e il 12 aprile, al Grand Hotel Palazzo della Fonte a Fiuggi, il partito trionfatore delle elezioni organizza la prima assemblea dei neo-eletti. Ed è in quel convegno che la Parenti fa partire le prime bordate contro il suo partito. “In Forza Italia – dichiara Titty la rossa, come viene soprannominata – c’è un grave problema di democrazia interna e di organizzazione. Perfino un circolo di tennis si dà uno statuto, delle regole chiare e trasparenti per eleggere il gruppo dirigente (…)”. Ma non si limita a questo. Denuncia “il pericolo di infiltrazione mafiose” e lancia accuse più o meno velate contro i rampanti quarantenni fininvestiani, catapultati dall’azienda a Montecitorio, senza alcuna preparazione politica o senso dello Stato, ma con abbondante credibilità presso il leader. Le sortite della Parenti non trovano orecchie che le ascoltino. Forza Italia viaggia col vento in poppa e dopo il varo del governo (18 maggio) si conferma primo partito alle elezioni europee (14 giugno) con il 30,6% dei voti. A poco a poco, l’ex pm finirà emarginata. Anni dopo uscirà dal partito e nel 2004 entrerà nella Margherita.
A metà luglio, mentre il paese è ancora alle prese con Mani Pulite e la lista di corrotti e corruttori si allunga ed imprenditori, faccendieri e politici continuano a fare la spola tra il carcere e il palazzo di giustizia, avviene il primo colpo di scena. E’ il 14 luglio e l’Italia, a mondiali americani sta giocando contro la Bulgaria. Il duo Biondi-Berlusconi confeziona un decreto (che porta il nome del Guardasigilli) definito tout court “salvaladri”. Sembra ai più una sorta di “cambiale” che Forza Italia deve pagare a quanti – corrotti, piduisti, massoni, mafiosi, ladruncoli di palazzo e di regime, tangentisti e papponi – l’hanno votata e fatta votare. Prima che venga ritirato a furor di popolo (mentre Ferrara dichiara che se il decreto verrà respinto il governo andrà a casa e Sgarbi definisce “assassini” i magistrati), dalle carceri escono centinaia di detenuti, compresi gli ex ministri Giulio Di Donato e Francesco De Lorenzo. Le tv del capo si scatenano a coprire la vergogna. La gente è basita, non capisce. Capirà? Non tanto, non ancora…

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