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sabato 1 giugno 2013

F 35, diamoci un taglio, di Roberto Ciccarelli.

158 parlamentari del Movimento 5 Stelle e di Sel, insieme a 14 deputati del Pd hanno presentato in parlamento una mozione contro il programma degli F 35. Nel 2013 già stanziati i primi 4 miliardi. Preziose risorse per mettere in sicurezza 8 mila scuole, fare 3mila asili e finanziare il reddito minimo garantito. La mozione contro il programma degli F35 presentata ieri in una conferenza stampa alla Camera dal «gruppo interparlamentare per la pace» potrebbe essere il primo atto politico condiviso tra 158 deputati del movimento Cinque stelle, di Sinistra Ecologia e Libertà e una pattuglia di 14 coraggiosi dissidenti del Pd larghe intese che non si sono presentati davanti alla stampa. Si dice che abbiano ricevuto pressioni dai vertici del loro gruppo parlamentare che avrebbe bloccato il desiderio di altri 20 di firmare la mozione pacifista. Sempre che nel frattempo le cannonate sparate da Beppe Grillo contro Sel e Rodotà non lacerino il tessuto di rapporti che già martedì 4 giugno potrebbe ampliarsi. Da quanto si è appreso ieri dalla conferenza dei capigruppo alla Camera, i Cinque stelle presenteranno con Sel una mozione sull'abolizione della Tav Torino-Lione. Sarà discussa in aula insieme a quella contrapposta dal Pd e dal Pdl favorevoli alla grande opera. Sulla base di questa intesa nascente tra i gruppi parlamentari dell'opposizione potrebbe essere presentato un atto parlamentare congiunto anche sul reddito minimo. Questo hanno assicurato ieri i parlamentari presenti in conferenza stampa. La mozione sugli F 35 intende impegnare il governo Letta a fermare l'acquisto di 90 cacciabombardieri di quinta generazione «Joint strike fighter». La spesa complessiva prevista pr l'Italia è di 12,9 miliardi di euro. Solo nel 2013 il governo staccherà un primo assegno da 4 miliardi per un progetto, si legge nel testo della mozione, che ha un costo complessivo stimato di 396 miliardi di dollari, anche se nessuno allo stato attuale è in grado di quantificare il costo finale dell'intero progetto, e quindi di ogni singolo aereo stimato intorno ai 190 milioni di dollari. Per l'economista Giulio Marcon, deputato di Sel, con i 4 miliardi preventivati per il 2013 si potrebbe abolire l'Imu sulla prima casa, mettere in sicurezza 8 mila scuole, fare 3 mila asili nido e garantire la metà dei costi di un reddito minimo per un anno. «Di fronte alla crisi - ha detto - è una scelta folle e insensata spendere questi soldi per gli F 35. L'Italia può fare a meno dei caccia, ma non degli ospedali, di scuole di qualità o della lotta alla disoccupazione giovanile». Quanto al Pd, determinante per dare un peso decisivo alla mozione, Maria Edera Spadoni del M5S si è augurata che dia «un appoggio totale. Questi soldi potrebbero essere utilizzati per attuare la convenzione di Istanbul o per la messa in sicurezza dei territori». Secondo il Consiglio nazionale dei geologi, dal 1996 al 2008 sono stati spesi in Italia più di 27 miliardi di euro per prevenire o per rimediare ai dissesti idrogeologici o ai terremoti. Una spesa imponente che non basta a garantire la sicurezza di 6 milioni di italiani che abitano nei 29.500 chilometri quadrati considerati a rischio. In queste zone sono oltre un milione gli edifici a rischio frane e alluvioni, di questi ben 6 mila sono le scuole e 531 gli ospedali. La cancellazione degli F 35, ma anche della Tav e delle altre grandi opere, procurerebbe alle casse dello Stato le risorse finanziarie per garantire l'agibilità statica al 29% dei 42 mila edifici scolastici esistenti, mentre al 60% le più elementari norme di sicurezza come le scale d'emergenza o le porte anti-panico. In teoria sarebbe quello che vorrebbe fare il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza che tuttavia non si è mai soffermata sui modi per recuperare queste risorse. In campagna elettorale il Pd aveva indicato la cifra di 7,5 miliardi di euro per mettere in sicurezza le scuole. Più che la cancellazione degli F35, il governo sembra pensare ai fondi dai 10-12 miliardi liberati dalla conclusione della procedura d'infrazione sul deficit, dai fondi della programmazione europea 2014-2020 e da alcune deroghe al patto di stabilità da discutere al vertice europeo di fine giugno. Sul campo ci sono dunque due modi per finanziare il welfare e l'istruzione. Quello del Pd che si concentra nella ricerca di una deroga ai meccanismi dell'austerità, e non sembra volere ridiscutere il programma degli F35, e quello di M5S-Sel che impone un ripensamento dei modelli di difesa e di sviluppo. L'esito di questo confronto dipende dal governo Letta, chiaramente orientato - lo ha ribadito ieri il ministro della difesa Mario Mauro a Uno mattina- a finanziare l'acquisto di aerei e fregate per i prossimi 30 anni. La mozione dell'opposizione riserva, infine, una stoccata a chi ritiene che l'acquisto degli F 35 avrà ricadute occupazionali sull'industria militare italiana. Le stime ufficiali parlano dell'arrivo di 10 mila nuovi posti di lavoro, mentre secondo i sindacati sarebbero solo 2 mila posti, frutto del ricollocamento dei lavoratori impegnati nella costruzione di un altro caccia, l'Euro-Fighter. La mozione parlamentare ha ricevuto l'appoggio della rete disarmo e di Sbilanciamoci che hanno raccolto 78 mila firme e 80 ordini del giorno degli enti locali come la Toscana o l'Emilia Romagna a sostegno della chiusura del dossier F 35. 31.05.2013, il manifesto

sabato 18 maggio 2013

L'ANNACATA

Che coss’è l’amor? Giuseppe Tramontana. A Francofonte, il mio paese natale, tra un mesetto scarso, ossia il 9 e 10 giugno prossimi, si andrà a votare per l’elezione del Sindaco. Speriamo bene, direte voi. Ma, sapete, siamo in Sicilia, e nulla è da darsi mai per scontato, se non il fatto che, di solito (ma speriamo che questa volta il trend cambi), chi parteggia per la dignità non trae la benché minima soddisfazione dai sacrifici profusi nella battaglia. Da questo punto di visita, il mio paese natio è una specie di cassaforte chiusa a tripla mandata ad ogni forma di cambiamento. Di cambiamento in meglio, almeno: invece, il cambiamento in peggio i suoi abitanti purtroppo lo sperimentano continuamente e da troppo tempo. Ma tant’è. Ora, poiché, nonostante sia lontano, il destino del mio paesello mi sta a cuore, in mancanza di altre informazioni di prima mano, mi sono catapultato su facebook per visitare i profili dei diversi candidati. Chiaramente io un candidato, anzi, una candidata preferita ce l’ho, si chiama Alessia Piccione, ragazza in gamba e passionale, una sorta di Dolores Ibarruri al profumo di zagara, ed è la persona a cui avrei dato il mio voto se fossi stato giù ed è comunque quella che segnalerò ai miei amici affinché la votino. Ma non è di Alessia che voglio parlare. Voglio parlare di un'altra cosa. Dicevo che ho visitato i profili dei candidati. Ed a parte qualche errore sintattico o grammaticale, (ad esempio, è caccia ai grandi latitanti: il congiuntivo e le virgole!), una cosa mi ha colpito: tutti giurano di amare il paese, Francofonte, appunto. Ciò mi ha riportato alla mente un episodio di tanti, tantissimi anni fa. Siamo alle metà degli anni sessanta e, in occasione di una campagna per le politiche, comparve sui muri di tutt’Italia un manifesto della DC. Vi era raffigurata una bella ragazza bionda, capelli lisci, un sorriso dolce, sereno, sul volto, immersa in un paesaggio campestre. Indossava un vestito bianco che le giungeva fin sotto le ginocchia, a maniche corte. Era bella, innocente, pura, gentile. Sotto, la scritta, a caratteri cubitali: “La DC compie vent’anni”. Ma, alle porte di Venezia, una irriverente mano ignota aggiunse: “xe ora de ciavarla!” (è ora di chiavarla, di scoparla!). Bene, vedendo adesso tutto questo amore per il paese esternato, sbandierato, urlato, sventolato, smartellato, strombazzato, e conoscendo lo stato miserevole in cui versa la povera cittadina, mi viene da dire che l’hanno amato così tanto che, alla fine, se la sono fottuta.

venerdì 5 aprile 2013

Grillo ci ha fatto ridere, ora vuol farci piangere, di Peppino Caldarola. ROMA - Sta andando in onda l’ennesima sceneggiata di Beppe Grillo. Il trasferimento coatto in località segreta (ma basta seguire i pullman per sapere dove vanno) dei suoi parlamentari rimette al centro della scena l’ex comico e il suo ispiratore. La tecnica di Grillo è furbissima. Mostra disprezzo verso i mezzi di informazione ma produce eventi che attraggono tv e giornali come mosche. Probabilmente è vero che nel suo gruppo parlamentare vi siano maldipancia. Probabilmente è vero che nel suo elettorato vi siano zone di scontento verso una linea di chiusura assoluta al dialogo con il Pd. Quello che conta, però, è che Grillo è indifferente a tutto questo. Le sue tecniche di comunicazione corrispondono al suo progetto politico. E il suo progetto politico ha ben chiari alcuni punti fermi. Il primo è la destrutturazione completa dell’assetto politico-rappresentativo del paese. Al primo posto c’è la messa in crisi dei partiti sia nella forma attuale sia in quella futura. Grillo pensa a movimenti ispirati da gruppi ristretti, coordinati sulla rete, convocati periodicamente in piazza. Poi toccherà ai sindacati. In tutto ciò c’è l’idea non di una trasformazione in senso di maggiore trasparenza delle istituzioni ma della loro completa immobilizzazione. L’idea di fare un sondaggio in rete sul nome del candidato alla presidenza della Repubblica racconta meglio di un libro quale idea di democrazia si sta facendo avanti. L’ispirazione è tratta dai movimenti di contestazione degli ultimi anni, dalle rivoluzioni arabe, agli indignatos spagnoli a Occupy Wall Street. Solo che questi movimenti avevano nel versante arabo la proposta di un cambiamento di regime in senso più democratico (poi è da vedere se sia finita davvero così), nel versante occidentale di creare potenti gruppi di pressioni che scalfissero la dittatura dell’1% che domina le nostre società con furberie e arricchimenti. Grillo ha aggiunto a questa piattaforma la sovrapposizione di un ristrettissimo gruppo di comando (con un risvolto imprenditoriale non banale visto quanto guadagna il suo blog), che decide volta a volta come attaccare il sistema. Sono vietcong della rete, tupamaros senza fucili, nelle liturgie assai vicini a quei movimenti di sinistra o di destra fortemente contrassegnati da simbolismi e riti. Nasce da qui la difficoltà del dialogo con questo coacervo elettorale. Il ”non possumus”, corredato da insulti, con cui Grillo accompagna il suo rifiuto di dialogo ha come contesto una visione totalitaria del potere, quel famoso 100% del parlamento che vuole conquistare. Difficile che accada, ma c’è invece la concreta possibilità che il parlamento attuale e quello futuro siano messi nelle condizioni di non funzionare. Nasce da qui il rischio democratico. Un paese in crisi che non riesce a far lavorare il legislatore. Finché non arriverà l’uomo forte. Che faccia, o abbia fatto, ridere nel passato è secondario, visto che vuol farci piangere. 05 Aprile 2013, dazebao

lunedì 5 luglio 2010

INTERCETTAZIONI, IL PUNTO.


di Giuseppe Tramontana




Premessa

In una situazione difficilissima per l’ordine pubblico in un paese come l’Italia, afflitto dal peso di vecchie e nuove mafie, capaci di esercitare vere e proprie forme di controllo del territorio in vaste aree del Paese, la tendenza generale, sviluppatasi da circa 15 anni, è quella della riduzione del numero dei reati più gravi, accompagnata da un costante incremento della capacità investigativa e dell’azione di contrasto esercitata dalla Polizia e dall’Autorità giudiziaria. Basti pensare al costante decremento degli omicidi, che si sono quasi dimezzati passando dai 1.065 del 1993 ai 605 nel 2008. Come spiegano gli esperti, questa accresciuta efficienza dell’azione di contrasto svolta da Polizia e Magistratura nei confronti della criminalità, in realtà, non ha alcuna relazione con le norme del nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1989 ed oggetto di revisioni continue che hanno progressivamente aggravato le procedure, rendendo più farraginosa l’attività giudiziaria. L’accresciuta efficienza dell’investigazione penale è, in gran parte, frutto dello sviluppo tecnologico che ha fornito agli investigatori metodi di conoscenza, banche dati e strumenti di indagine, in passato sconosciuti o (quasi) inesistenti.
In questo contesto giocano un ruolo preminente le operazioni di captazione di conversazioni o di comunicazioni segrete in corso fra due o più persone e la documentazione del traffico di comunicazioni telefoniche o telematiche intercorse fra determinate persone o in una determinata zona.
Ma, oggi in Italia, proprio su queste intercettazioni si vuole incidere in negativo, per depotenziarle. Molto è stato detto e si dice ancora sui giornali e sulla stampa, soprattutto quella non di regime, sugli effetti che il ‘ddl Alfano’ avrà sulla libertà di stampa. Molto meno è stato osservato per ciò che concerne l’impatto sulla giustizia e sulla capacità di magistratura e forze dell’ordine di combattere il crimine.
Perché si vuol colpire questo strumento? La sensazione è che lo si voglia fare proprio perché è efficace. Con il pretesto della privacy si vuole salvare ‘cricche’ e ‘comarche’, gente impresentabile che occupa anche posti di governo. Da questo punto di vista, effettivamente, le intercettazioni sono un problema: funzionano. Sarebbe meglio il contrario. Quanto alla privacy, vacci a credere! Soprattutto se sventolata da gente che ha messo alla gogna il giudice Mesiano (quello delle calze celesti, ricordate?), la fidanzata di Fini o l’ex direttore di Avvenimenti Boffo, gente che vivacchia appollaiata come avvoltoio alla riga di un giornale, scavando negli affari dei poveri disgraziati e sputtana, facendosene un vanto, l’Italia con veline (ex od attuali) e mantenute di vario genere.
Ma torniamo sul nostro. Per comprendere se effettivamente il sistema attuale delle intercettazioni sia così maldestro, mal funzionante, spregiudicato, poco serio e dannoso ( per il cittadino comune, s’intende) occorre operare una piccola ricognizione della disciplina vigente. E le sorprese non mancano. L’intercettazione di conversazioni destinate ad essere segrete o riservate fra due o più persone è indubbiamente un’operazione fortemente invasiva e limitativa della libertà morale dei soggetti coinvolti ed incide su un bene pubblico che la Costituzione ha espressamente considerato inviolabile. L’art. 15 della Costituzione espressamente dichiara che: “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.
La compressione di tale libertà individuale è ammessa soltanto: “per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.”
In tale materia, pertanto, vige una duplice riserva, di legge e di giurisdizione.
La disciplina vigente ha coniugato con rigore l’esigenza del contrasto alla criminalità attraverso gli strumenti dell’indagine penale con il bene costituzionale della segretezza e libertà della comunicazione, consentendo la compressione di tale valore della persona soltanto in presenza della necessità di repressione dei reati di maggior disvalore-sociale e sottoponendo tale deroga ad una serie di rigide garanzie procedurali.
In sintesi. i limiti posti dalla disciplina attuale, nel bilanciamento dei valori costituzionali, sono i seguenti:
a) le intercettazioni possono essere disposte solo per un catalogo limitato di reati, nel quale sono inclusi i reati di maggiore allarme sociale e sono esclusi tutti gli altri;
b) le intercettazioni devono essere disposte dal Giudice, su richiesta del Pubblico Ministero;
c) sono ammissibili solo in presenza di gravi indizi di reato, qualora l’intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini;
d) le operazioni di intercettazione devono essere effettuate nel rispetto di determinate modalità rigidamente stabilite dalla legge;
e) una procedura contraddittoria consente di stralciare dal processo le intercettazioni irrilevanti ai fini del procedimento, a tutela della riservatezza;
f) una sanzione di inutilizzabilità travolge le intercettazioni eseguite al di fuori dei limiti posti dalla legge.

La disciplina vigente.

1) I limiti di ammissibilità (art. 266 c.p.).

Attualmente, l'art. 266 c.p.p. prevede, al comma 1, che l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione è consentita nei procedimenti relativi ai seguenti reati:
a) delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 5 anni determinata a norma dell'art. 4;
b) delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni determinata a norma dell'ari. 4;
c) delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope;
d) delitti concernenti le armi e le sostanze esplosive;
e) delitti di contrabbando;
f) reati di ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria, abuso di informazioni privilegiate, manipolazione del mercato, molestia o disturbo alle persone col mezzo del telefono;
f-bis) delitti previsti dall'ari. 600-ter, terzo comma, c.p., anche se relativi al materiale pornografico di cui all'art. 600-quater. c.p..
Ai sensi del comma 2, negli stessi casi è consentita l'intercettazione di comunicazioni tra presenti. Tuttavia, qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p. (abitazioni o altri luoghi di privata dimora), l'intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa.

2. Presupposti e forme del provvedimento (art. 267 c.p.p.).

Attualmente, ai sensi dell'ari. 267 c.p.p., il PM richiede al GIP l'autorizzazione a disporre l'intercettazione.
Il GIP, con decreto motivato, concede l'autorizzazione solo nel caso in cui:
(1) l'intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione dell'indagine;
(2) vi siano gravi indizi di reato.

Nei casi di urgenza, quando vi è fondato timore di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini, è lo stesso PM a disporre l'intercettazione con decreto motivato. Tale decreto va comunicato immediatamente e comunque non oltre 24 ore al GIP. Il giudice, entro 48 ore dal provvedimento, decide sulla convalida con decreto motivato. Se il decreto del PM non viene convalidato nel termine stabilito, l'intercettazione non può essere proseguita e i risultati di essa non possono essere utilizzati.
Il decreto del PM, che dispone l'intercettazione, indica le modalità e la durata delle operazioni. Tale durata non può superare i 15 giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di 15 giorni, qualora ne permangano i presupposti.
Il PM procede alle operazioni di intercettazione personalmente, ovvero avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria. I decreti che dispongono, autorizzano, convalidano o prorogano le intercettazioni sono annotati, in ordine cronologico, su un apposito registro riservato tenuto nell'ufficio del pubblico ministero. Per ciascuna intercettazione vengono annotati l'inizio e il termine delle operazioni.

3. Modalità per l’esecuzione delle operazioni (art. 268, co 1, 2, 3 e 3 bis c.p.p.).

Le operazioni di intercettazione devono essere necessariamente effettuate nel rispetto di speciali modalità previste dalla legge.
In particolare esse devono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella Procura della Repubblica.
Questa restrizione può essere superata soltanto in presenza di due condizioni: quando tali impianti risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni d’urgenza.
In tali casi il PM, con proprio decreto motivato, può disporre il compimento delle operazioni medianti impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria.
Una regola meno rigida governa le intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche. In questi casi è consentito che il PM possa disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti appartenenti a privati. (Ciò deriva dal fatto che – in alcuni casi – solo gli operatori privati dispongono delle apparecchiature adeguate per eseguire tali operazioni).

4. Deposito degli atti e stralcio (art. 268, co 4, 5, 6, 7 e 8 c.p.p.).

Una procedura particolarmente trasparente è prevista per l’attivazione del contraddittorio e l’utilizzo processuale delle comunicazioni intercettate.
Innanzitutto è previsto che, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, devono essere depositati nella segreteria del PM, perché i difensori ne possano prendere visione, i verbali e le registrazioni, assieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato convalidato o prorogato l’intercettazione. Il deposito di tali atti può essere ritardato dal PM, autorizzato dal Giudice, fino alla conclusione delle indagini preliminari. I difensori hanno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le conversazioni registrate. Si apre quindi un sub-procedimento che vede l’intervento del Gip il quale dovrà disporre, a richiesta delle parti, l’acquisizione delle conversazioni che non appaiono manifestamente irrilevanti, procedendo allo stralcio di tutto il resto, in contraddittorio con il P.M. e i difensori.
Dopo aver disposto lo stralcio delle conversazioni irrilevanti, il Giudice, di norma, disporrà la trascrizione integrale delle registrazioni, ovvero la stampa delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire, con l’osservanza delle forme per l’espletamento delle perizie.
I difensori possono sempre ottenere copia delle trascrizioni o delle registrazioni effettuate su nastro magnetico.

5. Conservazione e distruzione della documentazione (art. 269 c.p.p.).

I verbali e le registrazioni delle conversazioni intercettate sono conservate presso l’ufficio del PM che le ha disposte, di regola sino al passaggio in giudicato della sentenza che pone termine al procedimento nell’ambito del quale sono state disposte. Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è più necessaria, possono chiederne la distruzione al Giudice che ha disposto o convalidato l’intercettazione, a tutela della riservatezza.

6. Utilizzazione in altri procedimenti (art. 270 c.p.p.).

La disciplina vigente pone divieto di carattere generale alla possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli in cui sono state disposte, stabilendo che i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati in altro procedimento solo se “assolutamente indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.
Nel caso le intercettazioni siano utilizzate per un diverso procedimento, devono comunque essere applicate le garanzie di trasparenza e contraddittorio previste in via generale. Quindi gli atti dovranno essere regolarmente depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento ed i difensori avranno facoltà di esaminarli, di estrarne copia e di effettuare le opportune richieste ai fini dello stralcio.

7. Divieti di utilizzazione (art. 271 c.p.p.).

La disciplina in materia di intercettazioni trova la sua norma di chiusura nell’art. 271 c.p. che stronca, con la più grave della sanzioni processuali, l’inutilizzabilità, l’inosservanza dei presupposti dei requisiti e delle modalità che regolano la materia.
In particolare la norma sancisce l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, nei casi in cui si sia verificata la mancata osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 (in merito ai presupposti ed alle forme del provvedimento che autorizza le intercettazioni) e 268, commi 1 (redazione del verbale) e 3 (compimento delle operazioni per mezzo di impianti installati presso la procura della Repubblica, salvo casi eccezionali).
Le intercettazioni che cadono sotto la scure dell’inutilizzabilità possono essere distrutte, in ogni stato e grado del procedimento, salvo che non costituiscano corpo del reato.

8. I casi di contestazione più frequenti nel diritto vivente.

Tralasciando la disciplina in materia di acquisizione di tabulati telefonici, il carattere rigido della normativa sulle intercettazioni e la sempre maggiore rilevanza che le operazioni di intercettazione hanno acquistato ai fini della repressione dei fatti più gravi di criminalità, hanno dato luogo ad uno sterminato contenzioso giudiziario. Il controllo della motivazione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria ed il rispetto dei rigorosi limiti modali imposti dalla normativa sono stati l’area di manovra su cui – quasi esclusivamente – si sono affilati i ferri nel confronto fra accusa e difesa nei procedimenti per reati gravi.
Al riguardo sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione nel 2000 (sent. nr. 17 del 21.6.2000), statuendo che “La motivazione "per relationem" di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando:
1)- faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;
2)- fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione;
3)- l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione.”
Un altro terreno sul quale si sono incrociati i ferri del confronto accusa/difesa è quello delle garanzie in tema di modalità di esecuzione delle operazioni. A fronte della inadeguatezza o insufficienza degli impianti di registrazione presso la Procura della Repubblica, nella pratica si è fatto largo uso al ricorso a registrazioni effettuate mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria. Ciò ha comportato inevitabili contestazioni circa la verifica dei presupposti che consentono la deroga all’uso degli impianti installati presso la Procura. Ne è seguito un fitto contenzioso giurisdizionale. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza n. 30347 del 12/07/2007, stabilendo che:
“In tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, l'obbligo di motivazione del decreto del pubblico ministero che dispone l'utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione all'ufficio di Procura non è assolto col semplice riferimento alla "insufficienza o inidoneità" degli impianti stessi (che ripete il conclusivo giudizio racchiuso nella formula di legge), ma richiede la specificazione delle ragioni di tale carenza che in concreto depongono per la ritenuta "insufficienza o inidoneità".
Nella motivazione la Corte ha precisato che l'adempimento dell'obbligo di motivazione implica, per il caso di inidoneità funzionale degli impianti della Procura, che sia data contezza, seppure senza particolari locuzioni o approfondimenti, delle ragioni che li rendono concretamente inadeguati al raggiungimento dello scopo, in relazione al reato per cui si procede ed al tipo di indagini necessarie.
Un’altra questione oggetto di contenzioso giudiziario, sempre nel campo delle modalità di esecuzione delle operazioni di intercettazione, riguarda la problematica del c.d. “ascolto remoto”, cioè il ricorso ad una tecnologia che consente l’ascolto – in contemporanea - delle conversazioni intercettate in luogo diverso dagli uffici della Procura dove sono installati gli impianti di registrazione. Ciò normalmente avviene presso gli uffici di polizia giudiziaria, situati sul territorio, per consentire un intervento più immediato – in caso di necessità – per bloccare un’attività criminosa o catturare un latitante.
Anche su tale questione sono dovute intervenire le Sezioni Unite con la sentenza n. 36359 del 26/06/2008 , salvando dalla scure dell’inutilizzabilità le intercettazioni effettuate con la tecnica dell’ascolto remotizzato. Al riguardo la Corte ha statuito che “Condizione necessaria per l'utilizzabilità delle intercettazioni è che l'attività di registrazione - che, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, consiste nella immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata - avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l'utilizzo di impianti ivi esistenti, mentre non rileva che negli stessi locali vengano successivamente svolte anche le ulteriori attività di ascolto, verbalizzazione ed eventuale riproduzione dei dati così registrati, che possono dunque essere eseguite "in remoto" presso gli uffici della polizia giudiziaria.”
Poiché poi nella prassi giudiziaria si sono - indubbiamente - verificati episodi di ricorso inflazionato allo strumento delle intercettazioni, specialmente nel caso di alcune indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Potenza, occorre rilevare che il ricorso all’intercettazione facile è stato stroncato dalla Cassazione. In una recente pronuncia, confermando la sanzione di inutilizzabilità irrogata dal giudice del merito, la Corte ha statuito che: ”In tema di intercettazioni telefoniche, la motivazione dei decreti autorizzativi, nel chiarire le ragioni del provvedimento, in ordine alla indispensabilità del mezzo probatorio, ai fini della prosecuzione delle indagini, ed alla sussistenza dei gravi indizi di reato, deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l'intercettazione di una determina utenza telefonica che fa capo ad una specifica persona, indicando pertanto il collegamento tra l'indagine in corso e la medesima persona” (Cass. Sez. VI, Sent. n. 12722 del 12/02/2009).
Nel diritto vivente, pertanto, le intercettazioni a pioggia, che hanno caratterizzato taluni fatti di cronaca, non trovano spazi di legittimità e sono destinate a cadere sotto la scure dell’inutilizzabilità alla luce della disciplina vigente nell’interpretazione temperata e prudente della Corte di Cassazione.
Come si può facilmente notare, i casi più frequenti di discussione e di attrito tra esigenza di tutela del cittadino ed efficacia dell’azione penale – gli stessi che vengono invocati quale motivo per riformare la disciplina delle intercettazioni da parte della maggioranza al governo - in realtà sono già stati ampiamente identificati e risolti dalla massima autorità giudiziaria.

La riforma del Governo Berlusconi

9. Il disegno di legge Alfano (norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali. Modifiche della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche).

Solo una attenta analisi della disciplina vigente consente di comprendere meglio il senso, la portata, l’estensione e gli effetti della riforma delle intercettazioni che il governo Berlusconi si accinge a far approvare dal Parlamento con il d.d.l Alfano.

9.1 I limiti di ammissibilità (nuovo testo dell’art. 266 c.p.).

Il nuovo testo dell’art. 266 c.p.p., come introdotto dall’art. 1, commi 9, nella versione approvata dalla Camera, lascia invariato, rispetto a quello vigente, la disciplina del “catalogo” dei reati per i quali sono consentite le intercettazioni. Tuttavia la novella legislativa interviene in maniera significativa, determinando:
1) l’ampliamento dell’ambito di applicazione della disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni anche alla acquisizione di immagini mediante riprese visive e alla acquisizione dei “tabulati telefonici”, vale a dire la documentazione del traffico telefonico e delle comunicazioni in genere;
2) la drastica limitazione della possibilità di procedere alle “intercettazioni ambientali”, che diventano possibili solo se vi è “fondato motivo di ritenere che nei luoghi ove è disposta l’intercettazione si stia svolgendo l’attività criminosa”.


9.2 Le intercettazioni di immagini mediante riprese visive.

Col riferimento, poi, alla “intercettazione di immagini mediante riprese visive”, sembra che con l’intervento in esame il legislatore abbia l’intenzione di sottoporre alla disciplina delle intercettazioni tutte le diverse ipotesi che la giurisprudenza definisce di “captazione di immagini”, anche le riprese di immagini acquisite in luoghi diversi da quelli privati o addirittura in luoghi pubblici. Invero la norma in esame introduce la necessità che siano autorizzate tutte le attività di intercettazioni mediante riprese visive e non soltanto quelle che avvengano in luoghi di privata dimora.
Attualmente, per i luoghi pubblici o aperti al pubblico, la giurisprudenza ritiene che l’effettuazione di riprese da parte degli organi di investigazione possa essere legittima e utilizzabile nel processo penale a determinate condizioni. Si ritiene, infatti, che le semplici riprese visive (diverse da quelle che siano finalizzate a captare flussi di comunicazioni, che sono pacificamente sottoposte alla disciplina delle intercettazioni), non appartengano al genus delle intercettazioni, ma a quello delle “prove documentali”, acquisibili ai sensi dell’art. 234 c.p.p., ovvero delle prova atipiche, richiamate dall’art. 189 c.p.p. Diversa è la situazione per le riprese effettuate nei luoghi di privata dimora, che incontrano il limite della tutela della libertà domiciliare fissato dall’art. 14 della Costituzione.
Un approfondito esame della natura giuridica delle videoregistrazioni e del loro regolamento processuale è stato compiuto dalla Sezioni Unite della Cassazione con le sentenza nr. 26795 del 28/03/2006 e nr. 1345 del 24.4.2002.
In conclusione, senza entrare nel merito delle due pronunce della Suprema Corte, le intercettazioni di immagini mediante riprese video-registrate, rientrano in diverse categorie e sono soggette a differenti regolamentazioni.
a) Le videoregistrazioni effettuate in luogo pubblico da soggetti privati o pubblici (come quelle eseguite da impianti di videosorveglianza), vanno incluse nella categoria delle prove documentali che possono essere liberamente acquisite al processo, ex art. 234 c.p.p.
b) Le videoregistrazioni effettuate in luogo pubblico nell’ambito dell’attività di polizia giudiziaria sono un mezzo atipico di ricerca della prova e non necessitano di autorizzazione dell’autorità giudiziaria;
c) Le videoregistrazioni effettuate in luoghi riservati sono prove atipiche, disciplinate dall’art. 189 c.p.p. e possono essere effettuate solo sulla base di un provvedimento motivato dell’Autorità giudiziaria, sia esso il P.M. o il Giudice;
d) Le videoregistrazioni effettuate in luoghi di privata dimora (che non siano rivolte anche all’intercettazione delle comunicazioni) non sono consentite e quindi sono inutilizzabili nel processo.
La riforma Alfano, estendendo alla “intercettazione di immagini mediante riprese visive” la disciplina prevista per le intercettazioni telefoniche ed ambientali, non opera alcuna distinzione fra le differenti categorie di videoregistrazioni di immagini, come identificate dal diritto vivente, con la conseguenza paradossale che la polizia giudiziaria sarà costretta ad uno spropositato uso delle proprie risorse umane per compiere operazioni di pedinamento, di appostamento, di osservazione, che potrebbero molto più efficacemente (ed economicamente) essere compiute con le operazioni di videoregistrazione (anche queste sostanzialmente espunte dalla cassetta degli attrezzi degli inquirenti).
Non risulta chiaro, inoltre, se le riprese visive effettuate dagli impianti di videosorveglianza, che sono proliferati in modo esponenziale nell’ottica della sicurezza, potranno essere acquisite dagli inquirenti e fare ingresso nel processo penale, ovvero dovranno essere sottoposte alla disciplina di quasi completa inibizione stabilità, in via generale per le altre operazioni di intercettazione.

9.3 Le intercettazioni ambientali.

Il nuovo comma 2 dell’art. 266 c.p.p. rende più difficoltoso il ricorso alle intercettazioni fra presenti (le c.d. “intercettazioni ambientali”).
Come abbiamo visto nella disciplina vigente, le intercettazioni ambientali sono equiparate a quelle telefoniche, però possono essere effettuate in luoghi di privata dimora soltanto se vi è fondato motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa.
La nuova disciplina elimina il riferimento ai luoghi dove si svolgono gli atti caratteristici della vita domestica, per cui le intercettazioni ambientali saranno consentite, a prescindere dal luogo dove vengono effettuate, solo se vi è fondato motivo di ritenere che in tale luogo si stia svolgendo l’attività criminosa.
La disciplina in discussione limita radicalmente l’uso delle intercettazioni ambientali, ha osservato al riguardo il CSM, nel parere citato, che “si tratta di una stretta che elimina con un tratto la quasi totalità delle intercettazioni ambientali, anche perché la dizione utilizzata dal legislatore - che ripercorre quella attualmente in vigore, ma limitata ai luoghi di privata dimora o equiparati - fa riferimento allo svolgimento “attuale” dell’attività criminosa, non al “potenziale” svolgimento della stessa; l’effettuazione dell’intercettazione dovrà, quindi, fondarsi, come attualmente avviene per le eccezionali occasioni di intercettazioni ambientali in luoghi di privata dimora, su elementi concreti che indichino che in quella specifica occasione si stia svolgendo l’attività criminosa.”
In conclusione, anche lo strumento delle intercettazioni ambientali è stato tolto dalla cassetta degli attrezzi degli inquirenti.

10. Presupposti e forme del provvedimento con cui sono disposte le intercettazioni (nuovo testo dell’art. 267 c.p.p.).

Come abbiamo visto, nella disciplina attuale il PM richiede al GIP l'autorizzazione a disporre l'intercettazione ed Il GIP, con decreto motivato, concede l'autorizzazione solo nel caso in cui l'intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione dell'indagine e vi siano gravi indizi di reato.
La nuova disciplina rivoluzione sia i presupposti che le forme del provvedimento.

10.1 Le forme del provvedimento di autorizzazione.

La nuova normativa prevede che la richiesta di autorizzazione del P.M. debba essere sempre corredata dall’assenso scritto del Procuratore della Repubblica, ovvero del Procuratore aggiunto o del magistrato appositamente delegati.
In sostanza, è stata estesa alla materia della ricerca delle prove (mediante operazioni di intercettazione) la discussa normativa introdotta dall’art. 3 del decreto legislativo 20 febbraio 2006 n. 106, attuativo della riforma “Castelli” dell’ordinamento giudiziario che prevede che, per la richiesta di misure cautelari da parte del P.M. sia necessario l’assenso scritto del Procuratore della Repubblica, ovvero del procuratore aggiunto o del magistrato delegato. Quindi è stato fatto un ulteriore passo avanti nel processo di verticalizzazione degli uffici della Procura e di neutralizzazione e controllo dell’azione del singolo magistrato dell’ufficio del P.M.
Ma l’innovazione che si colloca fuori dalle righe del processo penale è il trasferimento della competenza ad autorizzare le intercettazioni dall’ufficio del Gip al Tribunale del capoluogo del distretto, che decide in composizione collegiale.
E’ di tutta evidenza che attribuire il potere autorizzatorio al tribunale distrettuale in formazione collegiale, determina gravi inconvenienti, come rilevato nel parere del CSM che ha osservato che: “per alcuni tribunali distrettuali di minori dimensioni la disciplina attuale delle incompatibilità, congiunta con l’attribuzione del potere autorizzatorio ad un organo collegiale diverso dal GIP, determinerebbe il pericoloso approssimarsi di quel limite di saturazione oltre il quale si verifica la materiale impossibilità di celebrare i processi. In proposito, va comunque segnalato che affidare ad un collegio la competenza per l’autorizzazione allo svolgimento delle intercettazioni, appare distonico con il vigente sistema nel quale è previsto che un giudice monocratico possa irrogare anche pene di particolare rilevanza. In secondo luogo la previsione di una competenza accentrata nel tribunale distrettuale (..) determinerebbe un sicuro maggiore aggravio dei carichi di lavoro negli uffici giudiziari presso i tribunali interessati. Tali grandi uffici già ora sono quelli in maggior difficoltà nel territorio, ed il fatto che non sia stata prevista alcuna misura organizzativa idonea ad attenuare gli effetti di immediato aumento delle loro competenze si ripercuoterà, inevitabilmente, sulla loro capacità di definizione ordinaria dei processi rallentando ulteriormente i tempi di esaurimento degli affari giudiziari. Inoltre sarebbe bene tenere presente che il trasferimento ed il ritiro degli atti necessari per l’autorizzazione all’intercettazione, oltre all’evidente aggravio di costi e di impegno, pone fortissimi interrogativi sulla tenuta della segretezza degli atti di indagine. È ben noto, infatti, che sia il fax che la posta elettronica - allo stato non assistita da necessarie garanzie di autenticità - non possono essere utilizzati per una siffatta circolazione di documenti, in quanto non sono ritenuti sicuri per la garanzia della segretezza degli atti e per la tutela della privacy delle persone.”
Tale incomprensibile aggravio dei carichi di lavoro viene ulteriormente appesantito dalla norma che dispone che: “il pubblico ministero, insieme alla richiesta di autorizzazione, trasmette al giudice il fascicolo con tutti gli atti di indagine fino a quel momento compiuti”.
In base a tale disposizione le Procure dovrebbero spedire materialmente al Tribunale distrettuale le richieste con il fascicolo contenente tutti gli atti d’indagine compiuti.
“Appare evidente – osserva il CSM - lo spreco di personale, di risorse e di energie che ciò comporterebbe. (..) Sembra poi evidente che tale sistema di trasmissione, non può che far accrescere i rischi di indebita conoscenza del contenuto degli atti di indagine con evidenti riflessi sulla salvaguardia della segretezza degli stessi.”

10.2 I presupposti del provvedimento di autorizzazione

Per quanto riguarda le condizioni ed i requisiti del provvedimento autorizzatorio, la nuova disciplina prevede che l’autorizzazione è data con decreto motivato quando vi siano “evidenti gravi indizi di reato” (come prevede la disciplina attuale, quindi con una retromarcia rispetto agli “evidenti indizi di colpevolezza” del testo precedente), ma lo si potrà fare solo su utenze intestate all’indagato o a terzi che però potrebbero essere a conoscenza dei reati su cui si indaga. Le intercettazioni dovranno essere ‘assolutamente indispensabili’ per la prosecuzione delle indagini e sussisteranno specifiche ed inderogabili esigenze relative ai fatti per i quali si procede, fondate su elementi espressamente ed analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo procedimento e frutto di un’autonoma valutazione da parte del giudice.

10.3 I procedimenti contro ignoti.

Per i procedimenti contro ignoti, i nuovi commi 1-ter ed 1-quater prevedono la richiesta della persona offesa per l’autorizzazione a disporre le intercettazioni sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, “al solo fine di identificare l’autore del reato”. Negli stessi procedimenti è sempre consentita l’acquisizione dei tabulati telefonici, al solo fine di identificare le persone presenti sul luogo del reato o nelle immediate vicinanze di esso. Ha osservato al riguardo, nel suo parere, il CSM che: “prevedere che si possa procedere alle intercettazioni solo su richiesta della persona offesa per qualsiasi procedimento contro ignoti (ad esempio, un omicidio o un tentativo di omicidio) costituisce un vincolo oggettivo che trasforma la doverosa attività d’indagine, affidata agli organi dello Stato, in una attività a discrezione della volontà soggettiva della persona offesa. Una simile conseguenza deve essere particolarmente segnalata per i possibili effetti irrazionali. È bene segnalare, inoltre, che nella maggior parte dei casi il procedimento, anche per fatti di grave allarme sociale, nasce normalmente contro ignoti per poi eventualmente dirigersi verso l’individuazione di uno o più soggetti, sicché, seguendo la modifica nei termini proposti, in tale fase iniziale non si dovrebbe mai poter procedere alle operazioni di cui all’art. 266 c.p.p. senza la preventiva richiesta della persona offesa, e, peraltro, alle condizioni e nei limitati confini previsti dalla formulazione proposta. Il che in molti casi si tradurrebbe nell’impossibilità di svolgere proficuamente le indagini per numerosi reati, anche gravi, in cui siano inizialmente ignoti gli autori del fatto. Deve, inoltre, notarsi che la volontà della persona offesa può risultare particolarmente condizionata o condizionabile nella sua autodeterminazione dai possibili riflessi dell’attività investigativa gravanti proprio sulla persona offesa. Ciò vale in particolar modo nei reati come l’estorsione o l’usura, per i quali vi è una sensibile esposizione della persona offesa alla quale non può essere affidata una scelta così rilevante in ordine alle doverose modalità di svolgimento dell’indagine.”

10.4 La durata delle intercettazioni.

La norma introdotta dal nuovo comma 3 dell’art. 267 c.p.p. configura una disciplina innovativa della durata delle operazioni di intercettazioni, introducendo un limite massimo di durata delle stesse di giorni 75 (30+15+15+15).
Ha osservato in proposito il CSM che i cambiamenti progettati determinerebbero un’alterazione radicale del significato e della funzione delle norme sulla durata delle intercettazioni. “Attualmente, infatti, la disciplina della durata e delle proroghe successive è diretta ad assicurare un costante controllo del giudice sul fatto che le intercettazioni non si protraggono al di là dei limiti temporali determinati dalla loro prescritta assoluta indispensabilità ai fini delle indagini. La nuova disciplina impone di porre termine alle intercettazioni, dopo un breve arco di tempo vale a dire trenta giorni prorogabili per altri trenta giorni in presenza di particolari requisiti, anche se esse siano ancora (o addirittura inizino ora ad essere) indispensabili ai fini delle indagini. Ora, vi è da osservare che per la gran parte dei reati per i quali si procede allo svolgimento proficuo delle indagini anche attraverso le intercettazioni, la fissazione di termini così limitati non corrisponde alla realtà e pone gli uffici di procura e le forze di polizia nella evidente difficoltà di svolgere seriamente il lavoro investigativo. La prospettiva che viene così aperta è di vanificare gli sforzi investigativi delle forze dell’ordine e d’indagine degli uffici di procura, a causa di un ostacolo formale non rapportato alla reale esigenza di assicurare completezza all’attività d’indagine funzionale al vaglio processuale delle prove.”

10.5 Il regime delle intercettazioni per i reati di criminalità organizzata e terrorismo.

Un regime derogatorio speciale è previsto per i delitti di maggior allarme sociale di cui all’art. 51, comma 3 bis e 3 quater, c.p.p. Si tratta dei delitti previsti dagli art. 416, sesto comma (associazione per delinquere finalizzata alla tratta), 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e vendita di schiavi), 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) c.p.; dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di intimidazione previste dal predetto art. 416 bis, ovvero al fine di agevolare l’ attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché dai delitti dall’art. 74 del T.U. 309/90 (associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti) e dall’art. 291-quater del D.P.R. 43/1973 (T.U. doganale), nonché dei delitti, consumati o tentati, con finalità di terrorismo.
Con riferimento a tali delitti, per autorizzare le operazioni di intercettazione, non è richiesto il requisito degli “evidenti indizi di colpevolezza”, né che le operazioni siano “assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini”, essendo richiesto soltanto che vi siano “sufficienti indizi di reato” e che l’autorizzazione sia “necessaria” per lo svolgimento delle indagini.
Anche la disciplina del termine viene derogata, in quanto è previsto che il termine per tali operazioni sia di quaranta giorni, prorogabili per periodi successivi di 20 giorni per tutta la durata delle indagini preliminari.
Inoltre è previsto che le intercettazioni ambientali possono essere effettuate anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi ove sono disposte si stia svolgendo l’attività criminosa.
Nel campo dei reati di criminalità organizzate e di terrorismo, la nuova disciplina apparentemente sembra ricalcare la normativa attuale, che consente il ricorso allo strumento delle intercettazioni con limitazioni non troppo stringenti.
In realtà è stata introdotta una profonda restrizione agli strumenti investigativi esistenti, in quanto strumenti di indagine largamente diffusi e di grande utilità per le investigazioni, come l’acquisizione dei tabulati telefonici e l’effettuazione di videoregistrazioni, sono stati sottratti alla disponibilità della polizia e del magistrato inquirente ed infilati nel calderone della procedura aggravata per l’autorizzazione delle intercettazioni, con una conseguente perdita di rapidità ed efficienza dell’investigazione penale.
Inoltre la enorme differenziazione dei due regimi di autorizzazione, quello ordinario (in cui le intercettazioni sono quasi impossibili) e quello relativo ai delitti di criminalità organizzata (che consentirebbe un ricorso più esteso alle operazioni di intercettazione), è destinato a rendere meno incisiva l’azione di contrasto nei confronti della criminalità organizzata. Infatti, nella generalità dei casi, i delitti riconducibili alla criminalità organizzata, si presentano come delitti comuni. Una rapina è una rapina, un omicidio è un omicidio e, come tali, non rientrano nei delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p. Solo, all’esito delle investigazioni penali è possibile accertare se tali delitti rientrano nelle attività delle associazioni per delinquere di tipo mafioso. Conseguentemente se si disarma l’azione investigativa nei confronti dei delitti comuni, si diminuisce l’efficacia dell’azione di contrasto nei confronti della criminalità organizzata.

11. Esecuzione delle operazioni di intercettazione (nuovo testo dell’art. 268).

La nuova normativa sostanzialmente rimodula la disciplina, in tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione portata dall’art. 268. Per quanto riguarda il verbale delle operazioni, la novella estende il contenuto del verbale, senza apportare sostanziali variazioni, in quanto prevede una serie di adempimenti per la compilazione del verbale (indicazione degli estremi del decreto, annotazione del giorno e dell’ora di inizio e di cessazione delle registrazioni, la trascrizione sommaria del contenuto, etc) che attualmente sono già previsti dall’art. 8, comma 1 della disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che, conseguentemente, viene abrogato.


12. L’utilizzazione in altri procedimenti (nuovo testo dell’art. 270)

La riforma riscrive l’art. 270 c.p.p. riducendo in modo significativo i margini di utilizzabilità di intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono state autorizzate. Mentre la disciplina attuale consente l’utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, il nuovo testo dell’art. 270 consente l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni solo quando esse risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti di cui agli art. 51, commi 3 bis e 3-quater e 407, comma 2, lett. a) c.p.p., a condizione che esse non siano state dichiarate inutilizzabili nel procedimento nel quale sono state disposte.
Da un punto di vista pratico, per comprendere la differenza fra la vecchia e la nuova disciplina è opportuno richiamare il parere del CSM, che ha osservato: “Tale riduzione non è condivisibile. A titolo esemplificativo, non appare adeguato, in ragione del particolare spessore dello specifico interesse protetto, impedire l’utilizzo di intercettazioni provenienti da altro procedimento quando le stesse appaiano indispensabili per l’accertamento di delitti contro la personalità dello Stato, di cui agli artt. 241 ss. c.p.p., “per i quali è stabilita la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni”, ovvero di delitti contro l’incolumità pubblica, diversi dalla strage, “per i quali è stabilita la pena della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni o nel massimo a dieci anni”. Tali ultimi, peraltro, comprendono condotte criminose di gravità assoluta (epidemia, avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari) spesso correlate (come nel caso dell’incendio) a fenomeni estorsivi, ovvero collegate, soprattutto in determinati ambiti territoriali, ad attività illecite della criminalità organizzata. Sorprende, poi, che il d.d.l. non consenta la possibilità del ricorso ad intercettazioni provenienti da altro procedimento per l’accertamento di reati, assai frequenti nella prassi, avvertiti in modo particolarmente odioso dall’opinione pubblica, così riducendo rispetto ad essi, in maniera incisiva, la possibilità di configurare un numero assai elevato di illeciti. Ci si riferisce, in particolare, ai delitti di rapina e di estorsione non aggravati (cioè diversi dalle fattispecie di cui agli artt. 628, comma 3, e 629, comma 2, c.p.p.), nonché di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti previsto dall’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, essendo per il d.d.l. consentita l’applicazione dell’art. 270 c.p.p. alle sole figure aggravate di cui all’art. 80, comma 2 D.P.R. 309/90.

13. L’astensione del giudice e la sostituzione del Pubblico Ministero.

Il primo comma modifica l’art. 36 c.p.p.che elenca i motivi di astensione obbligatoria del giudice che si trovi in condizioni di ridotta imparzialità, aggiungendo al comma 1 una nuova lettera, h-bis) che prescrive l’obbligo di astensione del giudice nel caso che egli abbia “pubblicamente rilasciato dichiarazioni concernenti il procedimento affidatogli”. Il secondo comma modifica l’art. 53, comma 2, c.p.p., con riferimento ai casi in cui è possibile sostituire il P.M. senza il suo consenso. Al riguardo, occorre ricordare che l’art. 53, comma 2, c.p.p. disciplina i casi di sostituzione del P.M., prevedendo che il capo dell’ufficio provvede alla sostituzione del magistrato nel caso di grave impedimento personale, di rilevanti esigenze di servizio e per motivi di opportunità nel caso ricorrano talune delle condizioni previste dall’art. 36 c.p.p. In tutti gli altri casi è necessario il consenso del P.M. per la sua sostituzione.
La nuova disposizione prevede che il capo dell’ufficio giudiziario dovrà sostituire il P.M. che:
1) ha rilasciato pubblicamente dichiarazioni relative al procedimento affidatogli;
2) risulta iscritto nel registro degli indagati per il reato di illecita rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale di cui è titolare, previsto dall’art. 379 bis c.p. (che viene integralmente riformulato dal comma 26, lett. a) del d.d.l. Alfano.
Al riguardo è opportuno richiamare il parere del CSM, che ha osservato “La previsione di cui all’art. 1, comma 1, seppure ispirata alla condivisibile ratio di tutelare l’immagine di imparzialità del giudice, che non deve esprimere in sede impropria dichiarazioni su procedimenti a lui affidati, potenzialmente idonee a minare la credibilità stessa della funzione svolta, non appare tuttavia in grado di soddisfare le finalità cui è preposta. Invero, la norma è del tutto generica e si presta, perciò, ad agevoli strumentalizzazioni; sarebbe opportuno, quantomeno, specificare la portata che tali dichiarazioni devono avere per poter realmente determinare la lesione dei beni tutelabili esclusivamente con l’astensione obbligatoria del giudice designato. In tale prospettiva appare utile richiamare la tecnica legislativa utilizzata per l’individuazione dell’illecito disciplinare di cui all’art.2, comma 1 lett. v), D.Lgs. 109/20064. Allo stesso modo non appare condivisibile la scelta legislativa, esplicitata all’art. 1, comma 2, di includere nelle ipotesi di sostituzione dei pubblici ministeri la causa di astensione obbligatoria appena sopra illustrata. A conclusioni analoghe deve giungersi anche per quanto riguarda le altre ipotesi di sostituzione del pubblico ministero introdotte dal medesimo comma 2 in esame. Invero, la previsione che il pubblico ministero possa essere sostituito senza il suo consenso, allorquando egli risulti iscritto nel registro degli indagati per il reato di cui all’art. 379 bis c.p. “in relazione ad atti del procedimento assegnatogli”, si presta a pericolose strumentalizzazioni, giacché attraverso denunce pretestuose si consente alle parti private ovvero a terzi estranei al procedimento di incidere sulla designazione del pubblico ministero incaricato delle indagini. (..)Infine, appare in contrasto con la previsione di cui all’art. 5, comma 2, D.Lgs. 106/20065 l’introdotta possibilità di sostituire il magistrato assegnatario ed il capo dell’ufficio allorquando abbiano “rilasciato dichiarazioni pubbliche in merito ad un procedimento pendente presso il loro ufficio”.
In conclusione nessun magistrato, nemmeno il capo della Procura a cui il decreto Castelli, aveva riservato la facoltà di fornire informazioni sui procedimenti in corso, può aprire bocca ed informare l’opinione pubblica delle iniziative assunte rispetto ai procedimenti penali in corso.
A questo punto sorge spontanea la domanda, questa singolare disciplina è rivolta a tacitare i magistrati o ad accecare l’opinione pubblica che non deve sapere nulla, non deve essere informata dei procedimenti in corso, specialmente se relativi a vicende di qualche interesse pubblico?

14. Il regime di pubblicazione degli atti.

I commi da 4 ad 8 modificano gli art. 114 e 115 c.p.p. relativi al divieto di pubblicazione di atti d’indagine.
Il comma 5 introduce nell’art. 114 c.p.p. i nuovi commi 2-bis e 2-ter, che introducono una disciplina speciale rispettivamente per gli atti e documenti relativi a conversazioni o comunicazioni e per le richieste di misure cautelari e le relative ordinanze.
Mentre il comma 4 consente la pubblicazione per riassunto degli atti d’istruzione che non siano più coperti da segreto, il comma 5 introduce un divieto assoluto di pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e di tutti gli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico fino alla conclusione delle indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.
Per quanto riguarda le misure cautelari, il nuovo comma 2 ter introdotto nell’art. 114 c.p.p., consente la pubblicazione, nel contenuto, delle ordinanze dopo che l’indagato o il suo avvocato abbiano avuto conoscenza del provvedimento giudiziario, fatta eccezione per le parti delle ordinanze che riproducono la documentazione o gli atti relativi alle intercettazioni.
Al riguardo il CSM nel suo parere così si esprime: “la soluzione delineata dal ddl appare problematica, comportando l’equiparazione del regime relativo agli atti coperti da segreto a quello degli atti non più coperti da segreto: una parte significativa della fase delle indagini preliminari risulterebbe sottoposta ad un regime di indifferenziato divieto di pubblicazione degli atti, anche per riassunto, con evidente compressione dei valori riconducibili all’art. 21 Cost.”
Una norma veramente singolare è quella del comma 6, che interviene sull’art. 114 c.p.p. inserendovi un nuovo comma (6-ter) che vieta la pubblicazione e la diffusione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai processi e procedimenti penali loro affidati. Il divieto relativo alle immagini (n.b. solo alle immagini) non si applica nel caso di riprese audiovisive di un dibattimento, autorizzate con il consenso delle parti e quando, ai fini del diritto di cronaca, la rappresentazione dell’avvenimento.
Il comma successivo sostituisce il comma 7 dell’art. 114 c.p.p., prevedendo il divieto di pubblicazione “in ogni caso”(e quindi anche dopo la chiusura del dibattimento), degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni intercettate di cui sia stata ordinata la distruzione, ai sensi degli artt. 269 e 271 c.p.p. Il secondo periodo del nuovo comma 7 dispone il divieto di pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto delle intercettazioni di conversazioni riguardanti circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta l’espunzione, ai sensi del nuovo art. 268, comma 7 bis c.p.p.
Il comma 8 modifica l’art. 115 c.p.p. in materia di illecito disciplinare costituito dalla violazione del divieto di pubblicazione di atti del processo penale, rendendo più stringente il controllo disciplinare. In particolare prevede che l’organo disciplinare, entro 30 giorni dalla comunicazione dell’iscrizione del soggetto nel registro degli indagati, sentito il presunto autore del fatto, ne deve disporre la sospensione dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi.
In proposito il CSM si è così espresso:
“Non risulta condivisibile la previsione introdotta dalla norma, che modifica in maniera incisiva il secondo comma dell’art. 115 c.p.p. Invero l’onere informativo, divenuto di pertinenza esclusiva del Procuratore della Repubblica, viene necessariamente anticipato già al momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, prestandosi a facili strumentalizzazioni e ponendo a rischio la stessa segretezza dell’indagine.”

15. Le sanzioni penali per giornalisti ed editori.

E ora veniamo alle novità per giornalisti ed editori, che hanno già annunciato uno sciopero generale di protesta il 9 luglio. Le intercettazioni non potranno essere pubblicate sui giornali fino alla fine delle indagini e gli atti delle inchieste potranno essere solo riassunti. Gli editori che si ostineranno a pubblicare materiale scottante rischiano una multa fino a 450.000 euro, mentre i giornalisti che si macchieranno di tale misfatto saranno punibili con un mese di carcere e 10.000 euro di multa. Magra consolazione, solo ai giornalisti sarà permesso, in futuro, di fare riprese o registrazioni audio di nascosto.
Ciliegina sulla torta, le nuove regole si applicano ai processi in corso, in modo che qualcuno finalmente possa essere libero da fastidiosi impicci giudiziari e possa dedicarsi con calma alle sorti di un Paese che meriterebbe qualcosa di meglio dalla propria classe dirigente. Il Governo esulta perché finalmente sarà garantita la privacy di tutti i cittadini. La sensazione, invece, è che adesso siano solo i criminali a tirare un sospiro di sollievo e dormir sogni tranquilli, perché dubito che a qualcuno interessi ascoltare i vaneggiamenti telefonici della gente comune con amici e parenti. Il problema vero è che così si minano seriamente le basi della Giustizia italiana, già abbastanza sofferente, e si lasciano impuniti i delinquenti.
Con la nuova legge, tanto per fare un esempio, non avremmo mai saputo del crack Parmalat, della casa regalata a Scajola, di Calciopoli, delle violenze al G8, e di altri fatti grigi della recente cronaca nazionale.
Inoltre, non si potranno più effettuare riprese o registrazioni con strumentazioni (videocamere.ì, registratori) nascoste (è il c.d. “emendamento D’Addario”) se non si sia giornalisti o pubblicisti. Quindi, trasmissione come Report o Le Iene, basate sul lavoro di free lance, non saranno tecnicamente più possibili.


16. I cani da guardia della democrazia sdentati e imbavagliati.

In tema di libertà di informazione dei media, deve essere richiamata la Raccomandazione Rec (2003) 13 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, sulla diffusione d'informazioni attraverso i media in relazione ai procedimenti penali (adottata dal Consiglio dei ministri il 10 luglio 2003). Tale raccomandazione si basa, tra l'altro, sui seguenti presupposti: - i media hanno il diritto d'informare il pubblico alla luce del diritto dello stesso di ricevere informazioni, incluse informazioni su questioni d'interesse pubblico, in applicazione dell'articolo 10 della Convenzione, e che hanno il dovere professionale di farlo;
- i diritti alla presunzione d'innocenza, ad un processo equo ed al rispetto della vita privata e familiare, garantiti dagli articoli 6 e 8 della Convenzione, costituiscono esigenze fondamentali che devono essere rispettate in ogni società democratica;
- è importante che i media realizzino reportage sui procedimenti penali per informare il pubblico, r rendere visibile la funzione dissuasiva del diritto penale e consentire al pubblico di esercitare un diritto di controllo sul funzionamento del sistema giudiziario penale.
Tra i principi elencati dalla Raccomandazione in esame si ricordano i seguenti.
Principio 1 - Informazione del pubblico da parte dei media: il pubblico deve poter ricevere informazioni sulle attività delle autorità giudiziarie e dei servizi di polizia attraverso i media. I giornalisti devono di conseguenza poter liberamente riferire ed effettuare commenti sul funzionamento del sistema giudiziario penale, con salvezza delle sole limitazioni previste in applicazione dei principi sottoriportati. (…)
Principio 6 - Informazione regolare durante i procedimenti penali: nell'ambito dei procedimenti penali d'interesse pubblico o di altri procedimenti penali che richiamano in particolar modo l'attenzione del pubblico, le autorità giudiziarie ed i servizi di polizia dovrebbero informare i media dei loro atti essenziali, purché ciò non rechi pregiudizio al segreto istruttorie ed alle indagini di polizia e non ritardi o intralci i risultati dei procedimenti. Nel caso dei procedimenti penali che si protraggono per un lungo periodo, l'informazione dovrebbe essere fornita con regolarità.
Con particolare riferimento alla materia della pubblicazione di intercettazioni telefoniche, deve essere ricordata la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 7 giugno 2007 nel caso Dupuis ed altri contro la Francia (ricorso n. 1914/02).
Con tale pronuncia, la Corte ha affrontato il caso di due giornalisti francesi e della loro casa editrice ai quali erano state inflitte sanzioni pecuniarie, in quanto riconosciuti colpevoli del reato di concorso in violazione del segreto istruttorio o del segreto professionale ai sensi del codice penale francese. Essi avevano infatti pubblicato un libro contenente "facsimili di intercettazioni" e dichiarazioni rese dinanzi al magistrato istruttore da persone sottoposte ad istruttoria penale con riferimento ad una vicenda avente ad oggetto un sistema di intercettazioni illegali, che aveva destato vasta eco nell'opinione pubblica francese.
Nel valutare se l'ingerenza nella libertà d'espressione dei giornalisti (rappresentata dalla sanzione penale loro inflitta) fosse "necessaria in una società democratica" (come richiesto dal già ricordato art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo), la Corte di Strasburgo ha affermato, in linea di principio, che non è sostenibile che le questioni che sono sottoposte alla cognizione dei tribunali non possano, precedentemente o contemporaneamente, dar luogo a discussione in altre sedi, che siano le riviste specializzate, la stampa o l'opinione pubblica in generale. Alla funzione dei media, consistente nella comunicazione di dette informazioni e idee, si aggiunge il diritto del pubblico ad essere informato. Tuttavia, è necessario prendere in considerazione il diritto di ognuno a beneficiare di un processo equo quale quello garantito dall'art. 6, comma 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che, in materia penale, comprende il diritto ad un giudice imparziale. Con particolare riferimento al caso di specie, la Corte ha osservato che l'opera per cui era causa concerneva un dibattito che rivestiva un considerevole interesse pubblico. Essa apportava un contributo a quello che può essere definito un affare di Stato, che interessava l'opinione pubblica, e forniva alcune informazioni e riflessioni, trattandosi di personalità che erano state fatte oggetto di intercettazioni telefoniche illegali, delle situazioni in cui tali intercettazioni erano state effettuate e di coloro che ne erano stati i mandanti. Secondo la Corte, la lista delle duemila persone intercettate comprendeva i nomi di numerose personalità per lo meno mediatiche o mediatizzate. La Corte ha ricordato che l'art. 10, comma 2, della Convenzione non lascia spazio a restrizioni della libertà d'espressione nell'ambito del dibattito politico o delle questioni di interesse generale. Inoltre, i margini di critica ammissibili sono maggiori nei confronti di un uomo politico, in tale veste considerato, che di un privato cittadino: a differenza del secondo, il primo si espone inevitabilmente e consapevolmente ad un attento scrutinio di tutto quanto egli faccia, sia da parte dei giornalisti che da parte della generalità dei cittadini; conseguentemente, egli deve mostrare una maggiore tolleranza.
La Corte ha dichiarato che in una società democratica è necessario valutare con la più grande prudenza la necessità di punire per concorso nella violazione del segreto istruttorio o del segreto professionale dei giornalisti che prendono parte ad un dibattito pubblico di grande importanza, esercitando così la loro funzione di "cani da guardia" della democrazia. L'art. 10 della Convenzione tutela il diritto dei giornalisti a comunicare informazioni su questioni d'interesse generale quando essi si esprimono in buona fede, sulla base di fatti esatti e forniscono informazioni "affidabili e precise" nel rispetto dell'etica giornalistica.
La questione della libertà di stampa in relazione alla divulgazione di notizie tratte da procedimenti penali è stata oggetto di un’altra recente pronuncia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo nel caso Eerikäinen ed altri contro la Finlandia (ricorso n. 3514/02, Sentenza del 10 febbraio 2009).
In questo caso la Corte ha ritenuto non necessaria in una società democratica la sanzione inflitta a dei giornalisti per un articolo su un personaggio non pubblico coinvolto in un procedimento penale per evasione fiscale e truffa a enti previdenziali pubblici. Secondo la Corte, il fatto che l'articolo in questione avesse ad oggetto l'abuso di fondi pubblici costituiva una questione di pubblico interesse, anche in considerazione della gravità del caso. Dal punto di vista del diritto del pubblico ad essere informato su questioni di pubblico interesse, e dunque dal punto di vista della stampa, il bisogno di incoraggiare il dibattito pubblico su tale questione era fondato.
I media, in pratica, non potranno più dar conto delle inchieste penali in corso, soprattutto non potranno dire nulla circa i risultati emersi da eventuali operazioni di intercettazione di comunicazioni (se non – eventualmente – con anni di ritardo) ed i magistrati che conducono quelle indagini dovranno – formalmente – scomparire, diventare inesistenti. Neppure il loro nome dovrà essere pronunziato, né tanto meno pubblicata un’immagine (E’ la giusta vendetta nei confronti di personaggi come Falcone e Borsellino, di cui oggi non conosceremmo neanche il nome, se si fosse applicata la legge Alfano fin da principio).

17. Osservazioni conclusive.

Qualche anno fa avevo in classe una ragazza – Chiara, si chiamava – che amava in maniera viscerale e onnivora l’arte. La pittura, per l’esattezza. Come si fa normalmente davanti ad una passione divorante, la ragazza era totalmente presa dalla sua. Comprava e leggeva libri d’arte, monografie su Picasso, Degas, Kandinsky, Klee, De Chirico, Matisse, Van Gogh. E provava anche a disegnare, dipingere. Si era attrezzata con tavolozze, pennarelli, colore a tempera, ad olio, matite, matitine, tele, treppiedi… Insomma, un amore quasi illimitato. Ed illimitabile, se non ci fossero stati di mezzo i suoi genitori, due insegnanti pure loro. Papà e mamma, entrambi docenti di filosofia, ma con fin troppo senso pratico tanto da aver programmato, per la figlia, un cursus studiorum scientifico (infatti eravamo in un Liceo Scientifico), il più opportuno per la ricerca di un lavoro futuro. La ragazza si disperava, litigava, ma alla fine – essendo anche di temperamento mansueto e per nulla ribelle – cedeva. Veniva solo da me, suo insegnante, per lamentarsi, benché sempre in modo molto discreto, tenero persino. Io, da parte mia, in occasione dei colloqui, tentavo di dissuadere quei due intemerati dal comportarsi così con la figlia, ma anzi di assecondarla. Ma la loro risposta era sempre la stessa: “Con l’arte non si mangia! E’ per il suo bene che facciamo questa cosa, come dire?, impopolare. Un giorno ci ringrazierà.” Ogni volta la stessa cosa, la stessa litania.” Ed, in questo contesto, si spiegavano anche le sparizioni delle cose della ragazza, un po’ come oggi la sottrazione degli strumenti utili ai giudici per indagare. Chiara non trovava un libro sull’arte bizantina (ricordate la legge rogatorie internazionali?), domani la monografia su Bracque (screditare i pentiti), poi scomparvero tavolozza e pennelli (la separazione delle carriere), poi misero in soffitta i colori, le guide, le tele (lodo Alfano, legittimo impedimento, intercettazioni…). Fecero tutto a poco a poco. E sempre il bene della ragazza (del paese e della sua privacy). Al momento della scelta della facoltà universitaria, mentre la ragazza voleva iscriversi all’Accademia delle Belle Arti (quella di Venezia è rinomatissima, com’è noto), i genitori imposero Medicina (la maggioranza governa). E’ sempre comodo avere un medico in famiglia (se la famiglia, invece, è mafiosa, è più comodo avere un avvocato…).
Qualche tempo dopo incontri Chiara sul treno che da Padova porta a Venezia. Io lavoravo in Regione, lei frequentava l’università. Era carica di cartelle giganti. L’aveva spuntata: faceva Belle Arti. Aveva provato Medicina, ma non era affar suo. In tre anni, era riuscita a dare solo un paio di esami, non capiva le lezioni, si annoiava a morte e non riusciva a stare su un libro per più di un quarto d’ora. Ma, soprattutto, stava deperendo a vista d’occhio, sfiorando l’esaurimento nervoso Non viveva più. Si era mollata con Federico, il moroso, aveva lasciato nuoto, non usciva quasi più con gli amici (tutti vecchi superstiti dei tempi del Liceo, di nuovi neanche uno). Un disastro, insomma. E di fronte a questo stato anche i genitori dovettero arrendersi. Solo che le hanno fatto perdere quasi tre anni di studio, di carriera. Ma, alla fine, a Chiara è andata pure bene. Ha perso, sì, tre anni di università, ma chissà quanto tempo ne ha guadagnato in termini di vita, vitalità e creatività. Si potrà dire lo stesso dell’Italia?

lunedì 24 maggio 2010

DE IURE CONDITO



Come la rana messa a cuocere a fuoco lento sul fornello. La sapete la storia?

La storia della rana, messa a cuocere a fuoco lento sul fornello, e incapace di uscire dalla pentola finché muore cotta, riassume bene lo spirito di questo convegno sulla libertà di stampa; e anche di questo racconto, De iure condito, di Giuseppe Tramontana, che lo accompagna.

La morale della rana, che si accorge del pericolo, ma ormai non ha più le energie per fare un balzo e scappare, ma soprattutto dell'uomo che l'ha fatta bollire lentamente, senza dare nell’occhio è la triste conclusione a cui arriva il commissario Atenagora Merli alla fine dell'apologo di Giuseppe Tramontana: si tratta di un piccolo giallo poliziesco, in cui i buoni – il commissario, il poliziotto, il bambino, il procuratore – alla fine vengono sconfitti non tanto dal mostro Italo Fulvio, ma soprattutto dalle leggi, dalle norme anti-intercettazione, dalle lungaggini dei tribunali; dal principio che è l’autorità a fare la legge, non la verità.

Giuseppe Tramontana non è nuovo a prove di narrativa: proprio a Cadoneghe è stato presentato nel dicembre 2009 il romanzo La storia obliqua, edito da Kimerik; i racconti brevi o lunghi di Tramontana hanno le fattezze di conte philosophique, e attingono la loro verosimiglianza da un lavoro di precisa documentazione sulle grandi questioni del nostro paese: la giustizia, la politica degli affari, la mafia, l'informazione; senza dimenticare il calcio, sia nazionale che internazionale, che può essere usato per parlare di sistemi economici e politici: “le conseguenze delle migrazioni, la persistenza della corruzione e l'ascesa di nuovi potenti oligarchi come il presidente del Milan” (F.Foer, Come il calcio spiega il mondo, Milano, 2007, p.13-14).

Alternando prove di narrativa a saggi di storia medioevale e contemporanea, Giuseppe Tramontana si schiera per l'impegno civile e per la libertà di informazione; con lo stesso spirito e la stessa passione lavora come docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico “Curiel” di Padova. Ed è grazie allo spirito di iniziativa suo e degli amici del sito web “Altritalia” e dell’Associazione “Giuristi Democratici” di Padova che il Comune di Cadoneghe ospita questo convegno sulla libertà di stampa.

Inizialmente l'occasione per ragionare sull'informazione in Italia doveva essere la celebrazione del 3 maggio, proclamata dall'Unesco “Giornata Mondiale della libertà di stampa”; poi, come al solito, i fatti di cronaca hanno sorpassato e reso drammatico questo appuntamento: se è vero che ad oggi sono ormai quarantamila le adesioni all'appello contro la legge sulle intercettazioni promosso da Stefano Rodotà e da altri giuristi. E' per ragionare e protestare contro questa legge bavaglio, e contro una vera e propria strategia politica che sta imponendo il silenzio stampa, che il Comune di Cadoneghe organizza e appoggia questa iniziativa. Per non fare la fine della rana bollita, fregata dal metodo della lenta cottura.

Così siamo noi, nel nostro paese. Hanno cambiato il senso di alcune parole e hanno spacciato il privilegio per libertà. Hanno spacciato l’egoismo per iniziativa e l’arbitrio per privacy.

Giovanni Petrina (Assessore alla Cultura al Comune di Cadoneghe, PD)

DE IURE CONDITO
Un racconto sullo stato della giustizia prossimo venturo.
di G. Tramontana

Il commissario Atenagora Merli aprì la porta senza bussare.
Buongiorno capitano, disse il poliziotto seduto dietro la scrivania.
Buongiorno, Piero, lo salutò il commissario scorbutico, novità?
Sì, una telefonata.
Che dice, ‘sta telefonata?
Che un bambino è sparito.
Sparito in che senso?
Sparito che non è tornato a casa dopo la scuola.
Che scuola?
Elementare, commissà, la Pascoli.
E che cazzo? Quanti hanno ci ha?
La Pascoli?
Il bambino, Piè, che età ci ha?
Otto anni, terza elementare. Ha telefonato la madre. Preoccupata. Lo aspettava per l’una e mezza, le due al massimo e invece niente. Come volatilizzato.
Il commissario gettò uno sguardo all’orologio crocifisso alla parete: le sette e trentadue.
Minchia, tardi è, sibilò.
Tardissimo, disse Piero. Che facciamo?
Il commissario sbuffò. Alle otto e mezzo c’è la partita, disse, ma ora andiamo dalla madre del bambino. Come si chiama?
Il bambino, Andrea. Andrea Picello. Abitano in via Monza. Al 17.
Diciassette, che culo, fece il commissario. Speriamo di finirla bene.
Speriamo, disse Piero.
Anche per la partita, sibilò il commissario.
Anche per la partita.
La partita che non vedremo.
Già, che non vedremo.

Via Monza era in periferia. Periferia nord. Cupa, squallida. Dietro la stazione dei treni. Un tempo doveva essere una zona residenziale, poi deve essersi gradatamente adeguata all’avanzata del progresso. Palazzi di tre-quattro piani, fiori sui davanzali, bici accatastate davanti ai portoni. Qualche aiuola spelacchiata. Qualcuno con in mano un guinzaglio lungo come la fame a cui stava attaccato, all’altro capo del mondo, un cane annusatore. La macchina del commissario parcheggiò al numero 15.
Commissario, è al diciassette, fece Piero.
Lo so, non c’è posto più avanti, fece il commissario.
Scesero stanchi. Piero suonò al campanello Picello.
Chi è, chiese una voce di donna.
Polizia, rispose lui.
Il portone si aprì con un clic.
Terzo piano, li rincorse la voce al citofono.
La casa era silenziosa. Si poteva sentire il tic-tac dell’orologio alla parete. La donna li attendeva sul pianerottolo. Dietro di lei, un uomo, il marito. Il commissario e il poliziotto entrarono, si presentarono.
Prego siedano, disse la donna, con la faccia preoccupata e gli occhi arsi dalle lacrime. Si sedettero al tavolo della cucina.
Grazie per essere venuti, disse l’uomo all’impiedi.
Il commissario fece un cenno con capo: dovere. Non si è fatto vivo nessuno?, chiese di botto. Nessuno, fece la donna con voce tremolante.
Ha telefonato ai compagni?, chiese ancora il commissario.
Tutti, disse la donna. Nessuno l’ha visto dopo la scuola. Nessuno.
I quattro si guardarono. Piero guardò l’orologio al polso. Le otto e trentaquattro. Il commissario non sapeva che fare, che dire, che chiedere.
Commissario, non gli hanno fatto del male, vero?, chiese la donna.
Speriamo di no, disse lui.
Frequenta qualche sala giochi, qualche parco?, chiese Piero.
No. Che noi sappiano no, si inserì l’uomo.
Ha un cellulare?, chiese il commissario.
Così piccolo!, esclamò la donna. No che non ha un cellulare. Non siamo i tipi che mettono in mano un telefonino al figlio di otto anni.
Il commissario annuì.
I due poliziotti si rimisero in posizione eretta.
Commissario, me lo trovate, vero?, li supplicò la madre.
Ce la stiamo mettendo tutta, disse lui.
Me lo promette, insistette lei.
Glielo prometto.
Uscirono in silenzio. Scesero ascoltando il rimbombo dei propri passi nella tromba delle scale. Come storditi. Salirono in macchina. Piero, appena dentro l’abitacolo, accese la radio. Siamo al ventiseiesimo e il punteggio è ancora sullo zero a zero, gracchiava.
Che fai?, chiese il commissario.
La partita, disse Piero.
Spegni che mi è passata la voglia.

Avanti, disse la voce oltre la porta.
La porta si aprì.
Ah, è lei, dottor Merli, si accomodi.
La voce della donna era cordiale, accogliente. Si era spostata gli occhiali dalla montatura nera rettangolare sulla testa, come un cerchiello sui capelli biondi.
A che devo questa visita?, chiese.
Lavoro, procuratore.
La donna fece spallucce ed allargò le braccia: siamo qui.
Un bambino di otto anni non è tornato a casa, ieri sera, attaccò il commissario.
Scomparso? Aveva qualcosa in mano?
Nulla. E’ uscito da scuola regolarmente. Intorno alle dodici e venti. Non ha preso il pullmann. Non è andato con gli altri compagni. Non si sa nulla. Volatilizzato. Sembra.
Volatilizzato.
Il procuratore gettò uno sguardo fuori. Gli uccelli dardeggiavano nell’azzurro del cielo. Sbuffò. Stanca. E qui cominciano i guai, sussurrò.
Già, fece il commissario. Che si fa?
Si indaga.
Come partiamo?
Avete sentito qualcuno?
Sì, i compagni, due bidelli, la maestra. Niente. Tutti la stessa cosa.
Che casino.
Già. Possiamo cominciare a intercettare le telefonate.
Di chi?
Di nessuno in particolare. O meglio, di questi. Bidelli, maestre.
Al buio.
Se preferisce, al buio. Farsi dare i tabulati delle celle vicino alla scuola. Al solito.
Non si può. Non più, fece secca la donna.
Come non più?
Non più. La nuova legge lo vieta.
Ma c’è di mezzo un bambino, si irrigidì il commissario.
Anche se ci fosse di mezzo il Padreterno. Non si può. Al buio o verso ignoti non si può. Perché a carico di questi non ci sono mica indizi di colpevolezza, vero commissario?
E certo che no. Sennò li avremmo già presi.
E quindi nisba.
Ma che legge è questa?
La legge dello stato. E’ l’autorità a fare la legge, non la verità, dicevano i romani.
Il commissario sentì l’amaro in bocca. Socchiuse gli occhi come per ripararsi dal riverbero del sole. Si passò una mano sui capelli brizzolati. Che si fa, allora?, chiese.
Si torna all’antico. Soffiate, appostamenti, colloqui, informatori, fotografie. Sperando che servano.
Sono servite di solito?
Quasi mai. Solo nei film americani. E neanche sempre.
Appunto.

Pronto. Sì. Glielo passo subito, disse la donna mentre si asciugava le mani con un canovaccio a quadri. Si sporse dalla porta del soggiorno: Atenagora, al telefono, chiamò.
Il commissario si alzò lentamente, a piedi scalzi, aggirò la poltrona su cui era spaparanzato e andò ad afferrare la cornetta lasciata incustodita dalla moglie. Sì, sono io, disse, con chi parlo. Uhm. Uhm. Va bene. E richiuse.
Novità?, chiese la moglie sporgendo il capo dalla porta.
Forse.
Per il bambino?
Probabile.
Che storia, fece la donna.
Già, che storia.
Non si sa ancora nulla, vero?
Nulla. Ma domani potrebbe succedere qualcosa.
Era ora. E’ passata quasi una settimana. Tu che pensi: è vivo?
Speriamo.
Speriamo. Poveri genitori.
E poveri giudici.
Giudici?
Giudici. E poliziotti. Tutti con le mani legate.
La donna annuì. Ci vuole fortuna anche per cuocere un uovo.
Certo. Ma prima ci vuole la gallina che lo fa, l’uovo.

La scuola elementare Pascoli era a pianta quadrata. Tutta vetro e cemento. Con un vasto cortile davanti e robinie e glicini a proiettar ombra. La ringhiera, di ferro, alta un paio di metri, verde bottiglia, correva per tutto il perimetro. Il cancello di ingresso sormontato dalla scritta in cubitali, arcuata: Scuola elementare G. Pascoli. Di sotto passarono i due poliziotti, dopo che qualcuno aprì.
Buongiorno, disse il commissario al bidello che li accoglieva davanti alla porta a vetri. Siamo venuti all’appuntamento.
Di qui, fece il bidello indicando un corridoio laterale. Lo seguirono. Le aule risuonavano di voci femminili che facevano lezione. Una donna in fondo spingeva un carrello con il mocio. Vennero introdotti in una stanza spoglia, una sorta di ripostiglio. Tre persone dentro.
Buongiorno, dissero il commissario e Piero.
Buongiorno, dissero in coro i tre.
Chi di voi mi ha telefonato ieri sera?, chiese Merli.
Io, si fece avanti un tarchiato semicalvo. Ci siamo consultati tra di noi e abbiamo pensato che ci sono delle cose che dovreste sapere.
Uhm.
Dunque, abbiamo fatto mente locale. E mettendo tutto in fila, ci siamo fatti convinti che c’è qualcosa di strano nella scomparsa di Andrea.
Strano?
Strano. Da qualche tempo alcuni di noi, io e gli altri due colleghi qui presenti, abbiamo un tizio particolare che si aggirava nei paraggi.
Particolare come?
L’omino sorrise, mostrando due denti guasti. Sorrise come uno che la sa lunga, tanto lunga. A cospetto di uno che non sa nulla. Proprio nulla.
Maresciallo…
…Commissario.
…Commissario, questo tizio è conosciuto come uno a cui gli piacciono i bambini.
Piacciono piacciono, nel senso…
Sì, nel senso.
E avete avvertito qualcuno?
La segreteria, che doveva avvertire qualcuno. Carabinieri. Polizia. Non so.
Lo conoscete, ‘sto tizio?
Si chiama Italo Fulvio. Fulvio di cognome. Secco, nero di capelli e di carnagione. Porta sempre degli stivali marrone. Fuma. Scomparso il bambino, scomparso lui.
Pensate che siano collegate, le scomparse?, chiese Piero.
Pensiamo di sì.
E perché non l’avete detto prima?, chiese Merli.
Glielo abbiamo detto: abbiamo dato importanza alla cosa quasi per caso. Parlando tra di noi del più e del meno. Ci dovete scusare, ma le cose sono andate davvero così.
Già, fece Piero.
Già, fecero gli altri.
E voi che pensate, allora?, chiese il commissario.
Noi? A pensar male si fa peccato, ma quasi si sempre ci si azzecca.
Capisco. Altro di ‘sto Fulvio?
Niente. Scapolo. Passato losco.
Grazie.
Grazie a voi.
I poliziotti strinsero le mani a tutti e uscirono in corridoi, accompagnati dal bidello dell’andata. Vi siamo stati utili?, chiese l’uomo.
Vedremo. Tutto è utile, disse Piero.
Se non ti ammazza, bofonchiò Merli.

Il commissario entrò nel bar. Tintinnii di bicchieri e tazzine in sottofondo. Odore di caffè. Un barista lungo lungo e magro come un’acciuga che trafficava sotto il bancone alzò lo sguardo. Non fece nulla. Come se non l’avesse neanche visto. Merli gettò un’occhiata in giro. Al tavolino in all’angolo in fondo notò la capigliatura bionda del procuratore. Si avvicinò lentamente, quasi con cautela, passando tra i tavolini allineati. Si tastò le tasche della giacca come alla ricerca di qualcosa. Nulla.
Buongiorno dottoressa Romanut.
La dottoressa sollevò il capo: buongiorno a lei, Merli.
L’uomo scostò una sedia e si sedette senza attendere l’invito.
Stava leggendo il giornale, il magistrato. Lo ripiegò accuratamente e lo lasciò vicino al gomito. Novità, dottore?, disse, Come mai mi ha voluto vedere così di furia?
Merli tirò leggermente dal naso. Si passò una mano sotto il mento e poi l’alzò per richiamare l’attenzione del cameriere. Sì, ci sono novità, pare, disse d’un fiato.
Quali?
Abbiamo parlato con tre bidelli della scuola. Alcuni giorni prima della scomparsa del bambino hanno visto aggirarsi un tipo. Uno che si chiama Fulvio. Italo Fulvio.
Fulvio?
Fulvio di cognome. Si è fatto vedere per un paio di volte. Due, forse tre. E’ un tipo poco raccomandabile.
Lei sa tutto.
Quasi. Quanto basta per adesso, almeno.
Che si sa su questo?
Che è stato indagato per possesso e traffico di materiale pedopornografico. Se l’è cavata, però. E’ stato dentro per atti osceni qualche anno fa. Va dietro ai ragazzini. Gli piacciono. Li guarda, li scruta.
Inquietante.
Inquietante. E pericoloso.
Un santarellino.
Proprio. E nel quartiere c’è tanta chiacchiera che gira.
Tipo?
Questo. Che gli piacciono i bambini e se ne procura sempre.
Arrivò il cameriere.
Un caffè per me, disse la dottoressa. Lei?
Anche per me. E un bicchiere d’acqua fredda.
Due caffè e un bicchiere d’acqua fredda, confermò la donna. Dicevamo?
Dicevamo che ‘sto Fulvio è un pedofilo.
L’avevo già capito. Sposato? Parenti?
No. Niente moglie. Parenti, solo la madre. Anziana. Mezza rimbambita.
Ci avete parlato?
Poca roba. Come parlare al muro. Lo difende, certo. Dice cose strambe. Non lo vede da qualche settimana.
Abita con lei?
Sì e no. Ci abita quando ci abita. Sennò no.
Sennò no, certo.
Avete dato un’occhiata in giro, alla casa?
Sì. Trovato nulla. Nulla di rilevante, almeno. Qualche rivista porno sotto il materasso. Ma quelle ce le ha pure mio figlio di tredici anni.
Uhm.
Il cameriere arrivò con il vassoio. Poggiò le tazzine ed il bicchiere sul tavolino., Le tazzine fumavano. Il bicchiere era opaco a causa dell’acqua fredda. Una gocciolina scorreva lungo la parete, aprendosi la strada come un Nilo nel deserto. I due, in perfetta sincronia, strapparono un angolino delle bustine di zucchero e lo versarono nel cratere della tazzina. Mescolano con i cucchiaini appoggiati al piattino, riappoggiarono gli stessi cucchiaini intinti di marrone sul piattino e bevvero d’un fiato.
Ci vorrebbe una sigaretta, disse la donna.
Fa male.
Anche vivere fa male. Ma siamo qua. Dalla vita nessuno ne esce vivo.
Allora, che si fa?, chiese Merli.
Poca roba. Poca scelta. Insistere. Solo questo. Continuare a insistere.
Niente intercettazioni?
Non ancora. E’ troppo poco.
Come poco? Non ci sono abbastanza indizi di reato, come si dice in giuridichese?
Può darsi. Ma non è mica in corso.
Cioè?
Cioè che il reato deve essere in corso. Qui è in corso?
Che caz… cosa significa? Mi prende per il cu… in giro? Il reato caso mai è stato consumato: sequestro, si chiama.
La Romanut sorrise. L so come si chiama. Ma è così, ormai. E’ necessario che ci sia la certezza del reato. C’è la certezza?
Del reato?
Del reato.
Merli, tentennò:
La certezza proprio direi di no. Per quanto ne sappiamo potrebbe esserci stata una disgrazia, anche se…
Anche se sospettiamo di ‘sto Fulvio.
Sospetto non è certezza. Servono certezze. Questo dice la legge. E nel nostro caso le certezze non ci sono. O mi sbaglio? Non ancora, almeno.
Mi scusi, disse il commissario scaldandosi e scostando la sedia dal tavolino. Se non ricordo male, gli indizi di reato sono quelli che servono per chiedere l’arresto. Non è così?
La donna annuì.
E a cosa serve fare le intercettazioni se si sa già, con sicurezza, che si sta commettendo un reato? Questo non è ormai il momento per mettergli le manette ai polsi?
La donna fece spallucce: non servono a nulla.
E’ irrazionale. O sbaglio?
Già. Sed lex.
E mettere sotto intercettazione il telefono della madre?
La madre non è lui. E non credo che sappia di quello che sta combinando il figlio. O sbaglio.
Non ne sa nulla. L’abbiamo interrogata. E’ una povera vecchia. Ma…
…Ma mettere il suo telefono sotto controllo potrebbe farci scoprire dove si trova il figlio, giusto? E’ questo che vuole dire?
Esatto.
Non si può. Se non sa nulla di quello che ha combinato il figlio, non si può.
Non si può?
Non si può.
Sempre la legge?
La legge.
Ma neanche…
Neanche.
Merli si guardò attorno. Un occhio gli cadde sul giornale piegato. Dottoressa, una dichiarazione, almeno, potrebbe rilasciarla, disse. Così, tanto per togliere di mezzo la cappa di silenzio su questa storia.
La Romanut sorrise di nuovo: a che pro? Tenere desta l’attenzione?
E mettere in guardia la gente. Ma soprattutto cercare di farsi aiutare.
E non far sentire tranquillo il tipo.
Già.
Qualche trafiletto è comparso sulla stampa.
Solo?
Solo. Io non posso fare nulla. Non posso violare il segreto.
Sulle indagini?
Sulle indagini.
Sennò?
Sennò mi sostituiscono. O meglio mi possono denunciare per violazione del segreto d’ufficio. Al che i miei colleghi mi devono iscrivere nel registro degli indagati. Atto dovuto. E da qui scatta la sostituzione. Out.
Che storia. Siamo accerchiati.
Può ben dirlo.
Il commissario si fermò nuovamente. Gettò un nuovo sguardo al locale. Una donna gli passò davanti. Lui non la notò, neanche fosse trasparente. Sbuffò. Stanco. Confuso. Aveva prosciugato il fondo delle idee. Che cazzo di leggi, disse, mi scusi dottoressa.
Non si preoccupi. Capita anche a me.
Cosa?
Di scoraggiarmi. Di arrabbiarmi. E di usare certe parolacce. Come legge.

Il commissario Merli guardava fuori dalla finestra. Tramonto con il sole a bagnomaria sull’orizzonte. Dietro i caseggiati rosseggianti della periferia si intuiva la pianura verde, rombante, inquinata. Il cielo azzurro era percorso dai voli geometrici dei passeri scuri. Passeri. Rondini. Cos’altro? Osservava qualcosa dentro la sua testa. Un puntino luminoso in un mare di inchiostro di seppia. La cravatta allargata al collo, un bicchiere di carta con il caffè della macchinetta in mano. L’altra mano infilata nella tasca dei pantaloni. Qualcuno bussò. Piero.
Commissario, ci sono cose nuove.
Merli si voltò: dimmi.
Io, Jovine e Barbon abbiamo fatto il giro dei quartieri. E’ stata dura, ma qualcosa è venuta fuori. Nel quartiere di San Giuliano abbiamo parlato con un edicolante. Ha riconosciuto Fulvio. Fulvio e il bambino.
Il bambino?
Sì, il bambino.
Insieme?
Insieme. Dice che se lo ricorda perché da qualche giorno veniva a prendere dei gormiti.
A prendere chi? E cosa sono ‘sti gomiti?
Gormiti, commissà, gormiti. Sono dei pupazzetti di plastica. Dei mostriciattoli. Che ai bambini piacciono tanto. Ci andava Fulvio in edicola. E’ lui che l’edicolante dapprincipio ha riconosciuto. E costano, ‘sti mostri, sa.
E che ci faceva Fulvio con i pupazzi? Pensi quello che penso io?
Credo di sì.
E il bambino?
Ecco il bambino. Dice sempre l’edicolante che una ventina di giorni fa. Si ricordi: una ventina di giorni.
La scomparsa.
Esatto. La scomparsa. Dunque una ventina di giorni fa Fulvio c’è andato con bambino.
Andrea?
Lui. L’ha riconosciuto dalla foto. Anche Fulvio l’ha riconosciuto dalla foto. Fulvio ha comprato al bambino quattro o cinque di ‘sti pupazzi e poi se lo portò via.
Tutto?
No. Qualche minuto dopo ripassarono davanti all’edicola. In macchina, stavolta. Fulvio alla guida, ovviamente, e il piccolo dietro. Coi pupazzi in mano. Contento e sorridente. Ora, non so se lei sa dov’è l’edicola. E’ in corso Umberto. Sempre pieno di traffico. Lì vicino c’è un semaforo che dura quanto i cento metri per una lumaca. La macchina di Fulvio si fermò davanti all’edicola. In coda. Andrea dietro. Lo chiamò persino, all’edicolante. Gli mostrò da lontano i pupazzi che aveva in mano.
Chiamò l’edicolante?
L’edicolante.
Chiamalo. Voglio parlarci.
Non c’è bisogno: è qua davanti che aspetta.
Bravo. Fallo entrare. Chiama Jovine per la deposizione. E la Romanut. Passamela, poi.
Il procuratore?
Quante Romanut conosci tu?
Solo quella.
Ecco.
Piero girò sui tacchi, afferrò la maniglia per uscire, ma si bloccò. Girò la testa verso Merli, abbassandola un po’: Commissà, che dice, ci siamo?
Chi lo sa.

Il cellulare gli squillò nella tasca interna della giacca. Gli saltellò dentro come un animaletto epilettico.
Pronto, disse Merli.
Pronto, sior commissario, fece la voce all’altro capo.
Ah, sei tu, Barbon. Tutto a posto?
Sì. Gh’ avèmo il decreto. Ma, sior commissario, gh’hanno fato un film.
Che film.
Eh, che film. Schersa lei, sior commissario. Ma ci hanno fato ritornar dopo una settimana perché i se dovea riunir. Tre giudici se dovea riunir. Dicono che xe la lege. Lo sa lei? Mi no de certo. Ora, finalmente, avemo l’autorizzasion.
Uhm. Bravo. Bravi tutti.
Grassie. Speremo che serva sennò semo fregà.
Dove siete?
Par strada.
Portate tutto alla Romanut. Ora la chiamo e l’avviso.
Occhei, commissario. A dopo.
Richiuse. Fece il numero della Romanut. Pronto, dottoressa. Jovine e Barbon sono per strada. Hanno autorizzazione per le intercettazioni. Sì. Lo penso anch’io. E’ passato troppo tempo. Se quello non è fesso, ha almeno cambiato numero. O cellulare. Arrivederci.

Quello, in effetti, non era fesso. O almeno non quanto speravano loro. Il numero era disattivato. Muto. Numero inesistente, diceva la signorina del servizio telefonico.
Tutto da rifare, disse il commissario. ‘Sto cazzo di legge è fatta per i criminali. Altro che. Una tagliola, ecco cos’è. E il tempo è la tagliola di tutti. Gioca contro di noi. E a favore loro.
Si slacciò la cravatta e la gettò sul divano. Appoggiò i piedi sul tavolino basso. Le punte delle scarpe erano impolverate. Le strofinò sui polpacci. Prima l’una e poi l’altra. Tornò a fissarle. Ci vuole un altro colpo di culo, sussurrò.
La moglie gli portò il caffè. Adorava il caffè dopo cena. Nicolò?, chiese.
In camera sua. Fa i compiti.
Non è tardi?
Forse. Lo sa lui. Ormai chi gli può dire niente!
Merli tacque di nuovo. Pensieroso. Si alzò, andò alla libreria ed afferrò un romanzo di Mario Soldati. Lo sfogliò distrattamente. Si fermò a guardare il muro compatto di copertine. Ma inseguiva qualche pensiero dentro di sé.
A che pensi?, chiese la moglie.
Nulla. Che è tutto da rifare.
Sembri Bartali.
Lui sorrise.
Perché è tutto da rifare?
Perché il cellulare del tizio è morto.
Che vuol dire?
Questo. Vuol dire che non ne possiamo fare né utile né capitale.
E ora?
Ora niente. Così. Bisogna guardare in faccia la realtà. Così almeno ci può prendere per il culo come vuole.
Chi?
La realtà.
Lei annuì: punto e a capo, allora?
Tutto da zero. Vediamo. Fece schioccare la lingua: ho la bocca dolciastra, disse. Il caffè era troppo dolce.
Due cucchiaini come piace a te. Sarà lo zucchero.
O i cucchiaini.
O il caffè.

Ma quanto tempo è passato?, chiese Jovine quasi sovrappensiero.
Quasi un mese e mezzo, disse Piero. E ancora siamo al punto di partenza. E’ la millesima volta che facciamo ‘sta strada.
E meno male che quello del negozio si è ricordato. Sennò col cazzo.
Meno male.
L’auto con a bordo i due filava liscia sulla statale. Sul sedile posteriore dormicchiava la nuova cartella con al documentazione del tribunale. Verde, con due strisce orizzontali nere. Dentro, tra l’altro, anche la nuova autorizzazione per le intercettazioni. Il nuovo numero l’avevano trovato grazie ai ricordi del commesso di un negozio di cellulari e roba del genere. Si ricordava di Fulvio. Non sapeva perché. Se lo ricordava e basta.
La Romanut li aspettava. Di nuovo. Seduta alla scrivania. La cicca accesa nel posacenere che emetteva un filo di fumo. Spulciava atti, documenti, fogli. Poi alzava la testa, guardando di fronte, portandosi una matita alle labbra e sistemandosi gli occhiali sul naso. Pensierosa. O perplessa.

Ve lo dico subito: la storia non finì bene. Non è il paese dei lieto fine, questo. E poi non è che debbano finire bene per forza. Anzi. Il mestiere che facevo mi ha insegnato che sono poche le storie che finiscono come devono finire. Tu vai avanti, ti impegni, sudi come un cane, speri di dare il tuo contributo. Ma c’è sempre qualcuno che ti va contro. Che trama contro il tuo lavoro, le tue speranze, contro di te. La sensazione ce l’hai spesso, ma tiri avanti lo stesso. Cosa vuoi che accada, ti dici, peggio per loro. Io ho la forza delle mie idee e del mio impegno. Macché. Alla fine, la spuntano loro. Per questo ‘sto paese sta andando a rotoli. Tutto comincia da piccoli. Se a un bambino insegnano a dire noi, ma a pensare io, è già tutto perduto. E così è stato da noi. Ognuno per sé. E la legge fatta per ciascuno, non per tutti. Rispettare che? Rispettare cosa? Il mio privilegio. Poi si cambia il senso delle parole. Lentamente. Impercettibilmente, come dicono quelli che hanno studiato tanto. Come la rana messa a cuocere a fuoco lento sul fornello. La sapete la storia? Una rana viene messa in un bel pentolone d’acqua da uno scienziato. L’acqua è a temperatura ambiente. La rana ci si trova bene. Tutto occhei. La pentola poi viene messa sul fornello. E l’acqua comincia a riscaldarsi. Lentamente. All’inizio diventa tiepida. La rana ci si trova benissimo. E’ allegra, canta e ride, se volete immaginarvela così. Non ha nessuna intenzione di uscire. Ma a poco a poco l’acqua diventa sempre più calda. La rana ci si trova ancora bene. Però a poco a poco, man mano che l’acqua si riscalda, sente le forze che l’abbandonano. Ma non fa nulla. Si trova ancora bene. E poi non ha molta voglia di lasciare quel calduccio. Sta bene. Certo un po’ di caldo, ma sta bene. La temperatura aumenta. Le forze abbandonano sempre più la rana. Ora è decisamente stanca, quasi cotta, diremmo. Si accorge del pericolo, ma ormai non ha più le energie per fare un balzo e scappare. Il caldo aumenta e anche la sua angoscia, mentre la sua debolezza è massima. Alla fine, quando si rende conto di sta per morire, tenta disperatamente di salvarsi. Ma ormai è troppo tardi. E muore cotta. E’ stato furbo l’uomo che l’ha messa in pentola. L’ha fatta bollire lentamente. Senza dare nell’occhio, senza allarmare la rana. Se, invece, l’avesse gettata fin dall’inizio nell’acqua bollente, lei si sarebbe ribellata, con balzo sarebbe schizzata via. Invece, con il metodo della lenta cottura, piano piano, è riuscita a fregarla. Così siamo noi, nel nostro paese. Hanno cambiato il senso di alcune parole e hanno spacciato il privilegio per libertà. Hanno spacciato l’egoismo per iniziativa e l’arbitrio per privacy. E io non ce la facevo più. Il voltastomaco non mi faceva dormire la notte. Prima di dimettermi ci ho pensato bene, naturalmente. Ma più ci pensavo, più cresceva lo schifo e più mi convincevo di dovermene andare. Per tornare a noi, il bambino non lo trovammo. Ma scoprimmo che fine fece. Impotenti. Ce lo sfilarono da sotto il naso. Lo scoprimmo, ma non riuscimmo a fare nulla. Il massimo dell’impotenza. I genitori me li sono sempre immaginati disperati, con gli occhi rossi di collera. Giustamente. Non so se hanno capito di chi fosse la colpa. Non mi stupirebbe che se la fossero presa con noi. Noi poliziotti, dico. O se si resero conto che tutto nasceva dall’alto, dalla politica, dal potere, dalla legge che dovrebbe tutelarci e farci sentire tranquilli. Non gliel’ho mai chiesto. Non li ho mai incontrati. Mai. Impotenti, siamo. Impotenti. E soli. Squallidamente soli. Dopo sessanta giorni di intercettazioni avevamo poco o nulla in mano. Bla bla, bla bla. Quello, Fulvio credo si chiamasse, parlava parlava ma non si scomponeva. Il tempo passava e quello non si scopriva. Sapeva che stavamo all’ascolto? Può darsi. O lo intuiva almeno. Stupido non era. Per cui, probabilmente, c’era arrivato che noi lo sentivamo. E noi ad ascoltare. Quello nulla. E il tempo filava come una goccia nella siringa. Settantacinque giorni. Settantacinque notti. Due mesi e mezzo. Tanto per legge potevamo ascoltare. Non un giorno in più. A mezzanotte del settantacinquesimo giorno, zac: staccare tutto. Tutto questo è il tempo massimo che, in Italia, si può perdere per salvare la vita di un bambino. La legge. L’ultimo giorno doveva essere il 29 settembre. Sono forte con i numeri, io. Mi ricordo le date. Tutte le date. L’attentato di Sarajevo e la strage di Ustica, l’omicidio di Moro, la vittoria ai mondiali del 1982 e quella del 2006. Tutte. Il 29 settembre, dicevo, scadevano i settantacinque giorni. Il 30 sarebbe stato troppo tardi. Anzi, alle 0,01 del 30 sarebbe stato già tardi. Poco prima di staccare, però, abbiamo avuto l’imbocco giusto. Si capiva tutto. Mi sono sempre chiesto se il tizio l’avesse fatto apposta, se conosceva la normativa, se aveva volto prenderci per il culo. Qualche risposta me la sono data, ma me la tengo per me. Insomma, tutto fu chiaro all’improvviso. Alla fine. Quando ormai non c’era più tempo. Io e Jovine stavamo ad ascoltare. Barbon non c’era quella notte. C’era uno della scientifica, di cui non mi ricordo il nome, Frigerio forse, non so. Si parlava di soldi. Si parlava del regalo che era poi il bambino. Piè, disse Jovine, se lo stanno vendendo come carne da macello. Non lo potrò mai dimenticare. A chi? Bè, pedofili forse. Trapianti, forse. Sicuramente non a suore di carità. Piè, se lo vendono, mi disse ancora Jovine con le lacrime agli occhi. Ascoltammo ancora. Speravamo che si tradissero, che si lasciassero sfuggire il luogo della consegna. Nulla. L’ultima cosa che quello disse fu: ti chiamo domani per dirti dove. Domani era tardi. Ci guardammo io, Jovine, il commissario, l’altro tecnico. Silenzio. Impotenti, sconfitti. Dalla legge, sconfitti. Forse fu quello il momento in cui presi la decisione dell’addio. Tornai a casa dopo aver girato per i bar aperti di mezza città. In mente mi rimbombavano le parole di mio padre: fa’ la cosa giusta e se noi puoi farla giusta, falla e basta. E mi dimisi. L’indomani presentai le dimissioni. Nessuno tentò di farmi cambiare idea. Nessuno ci sarebbe riuscito, d’altronde. Divenni un ex. Ex poliziotto, ex servitore di uno Stato ex. Solo la mia dignità non si era dimessa, non era diventata ex. Per questo mollai tutto. Per non essere preso per il culo. Da nessuno. Neppure dalla legge.